I segreti nei libri

Abili nel calcolo e inclini a imparare tutto ciò che concerneva la quantità, la ripartizione, il guadagno netto e la misura, in principio i miei “monelli” erano chiusi e ostili alla pagina stampata come a una fatica estranea e inutile alla loro vita concitata.

Affrontavano la lettura come un esercizio vuoto il cui significato si esauriva nella pena della decodificazione. Sebbene fossero in terza elementare, arrancavano balbettando sulle parole, ora evocando la dura salita dell’alpinista ora la deriva di una canoa fra le rocce di un torrente.

La noia e lo sforzo annullavano in loro ogni minimo desiderio di mettersi a leggere e generavano una sofferenza nervosa in me che li ascoltavo.

Come potevano capire se non riuscivano neanche a pronunciare? Lo stupore ignorante con cui accoglievano l’esistenza di termini elementari mi diceva quanto lontano fosse un libro da quelle esistenze sgranate davanti al televisore o affinate per strada.

Cominciai a leggere per loro con espressione sostituendo via via le parole “difficili” (che avrebbero potuto inceppare il corso del brano), imitando le voci dei personaggi, interpretando con il tono, le smorfie e la mimica l’atmosfera di un racconto.

Li vidi risvegliarsi come davanti a una sorpresa impensata.
I libri, dunque, potevano essere divertenti.

Una poesia, una storia, un ricordo scritto erano un rifugio fantastico o la vita, che qualcuno s’era fermato a dire, a ripensare.

Pinocchio, le favole e le filastrocche di Rodari, Marcovaldo e il Califfo Cicogna divennero familiari ai bambini come il panettiere del borgo. Avevo appiccato il fuoco alla legna verde, ma una volta accesa la fiamma non l’avrei più lasciata spegnere.

E quando li vedevo interessati a una poesia, chiedevo che la imparassero a memoria.

Davo dieci, dodici giorni di tempo; poi li interrogavo.
Pochi non la studiavano; e, comunque, anche quei pochi sapevano riferirmi il senso.

“Ero un fanciullo, andavo a scuola, e un giorno dissi a me stesso:
- Non ci voglio andare - e non ci andai...”.
Ma come?! Anche i poeti avevano voglia di tagliare?...
Sì, ma poi il rimorso, la nostalgia del banco vuoto, quel sentirsi fuori posto per le vie della città mentre i compagni sono in classe...

Per amare la parola scritta dovevano incontrarsi dentro le parole.

Marino Moretti da ragazzino aveva tagliato.

E io, ad essere sincera, proprio in quel periodo, non avevo forse voglia di tagliare, di tralignare, di farmi insomma gli affari miei in quella cornice un po’ libera e zingaresca che si stava rivelando ideale agli amori fuori programma? C’era un maestro su che mi piaceva.

Un orfano dei Vagabondi del Dharma: chitarra, barba bionda, occhi turchesi, laccetto di cuoio al collo, sacca con libri vari e mela rossa. Non avevo voluto accorgermi di quanto mi piacesse. Finché lui non me lo aveva scritto in un biglietto e mi aveva mandato giù Pischeddu con un vocabolario: “Dice il maestro di sfogliarlo bene, ché la parola che cercavate c’è”. E quando, dopo una breve resistenza, la posta prese il suo giro, scelsi – perché era il primo a finire i compiti e perché vedendo arrivare il messaggero del maestro Flavio si teneva pronto, in attesa di un mio cenno, a sgattaiolare fuori e a recapitare la risposta – il postino Vezzardi.

Sollevavo gli occhi dal mio scritto e incontravo i suoi. Lui col dito silenzioso m’indicava il piano superiore, io annuivo e, mormorando inutili raccomandazioni, gli consegnavo il foglietto ripiegato.

Non erano mai frasi d’amore facili a capirsi e a dare scandalo (la discrezione aleatoria dei postini complicava il gioco), ma le battute di un discorso interrotto ininterrotto, impressioni su autori, soprannomi ai colleghi, enigmi in quella lingua chiusa e nota soltanto ai due che in essa hanno stampato i primi passi dell’amore.

Valeria Amerano