Da un’indagine abbastanza recente risulta che gli studenti della scuola secondaria asseriscano di non gradire la storia, perchè la considerano una disciplina che non tanto va capita, quanto piuttosto memorizzata: un intrico di nomi, di date, di eventi che si accavallano, senza che sia possibile scoprirne la logica, il disegno sottostante.
Ancora oggi la storia, malgrado I progressi dell’editoria e la maggiore attenzione ai diversi stili cognitivi degli alunni, viene considerata una disciplina “debole”. Per darle dignità di scienza anche sotto il profilo pedagogico è necessario pertanto che, fin dal primo approccio a livello di scuola primaria, la si metta in grado di diventare una disciplina formativa: come la lingua e la matematica.
Non bastano, per renderla tale, I tradizionali espedienti che dovrebbero poter catturare l’attenzione dei bambini: il richiamo insistente al mondo del leggendario, l’enfatizzazione dei personaggi, l’idealizzazione di episodi e di momenti del complesso caratterizzarsi delle epoche e delle culture.
Fare storia fin dai primi due anni della primaria significa guidare il bambino a svincolarsi dal fluire di una quotidianità che, per quanto amorfa possa essere, lo cattura e lo assorbe e richiede di impegnarlo in una “ricerca delle origini”: di sé, della sua gente, della sua cultura.
Ciò comporta fondare la storia su due direzioni di marcia fondamentali: la formazione del senso del tempo e la ricerca delle fonti.
La nozione di tempo non è da considerarsi innata, pur essendo una componente essenziale dello sviluppo cognitivo ed emotivo.
È vero che il bambino matura a poco a po co, in maniera “vitalistica” e pressoché naturale, l’intuizione di un tempo che scandisce le sue azioni, le sue attese, gli eventi del suo quotidiano. Ma spetta alla scuola aiutarlo a trasformare tali intuizioni in concetti ordinatori che diano un senso al succedersi, al mutare e al ripetersi degli eventi, alla crescita e al logoramento di tutto ciò che fa parte della realtà.
Le prime intuizioni, quelle che ogni bambino arriva a formarsi quando è immerso in progetti di vita di cui egli stesso può non esser consapevole, rappresentano dunque la base di partenza di una formazione che deve portarlo a collegare gli spezzoni delle sue esperienze e degli eventi che lo riguardano e a costruirsi progressivamente una memoria.
Quando si interpellano I bambini di una seconda attraverso opportuni “brain-storming” si scopre che, mentre alcuni concepiscono ancora il tempo come un alternarsi di nuvole e di sereno, altri incominciano a intuire la forza inarrestabile di un agente, non comandato da volontà umana, che accresce, che consuma, che trasforma; altri ancora arrivano a percepire la soggettività delle durate a seconda che il tempo scandisca attività motivanti o sgradevoli, esperienze di gioia, di attesa, di noia, di dolore.
Le attività didattiche mirate alla maturazione nel bambino di una coscienza temporale sono, com’è noto, molte e varie e, malgrado l’apparente astrattezza dei concetti, possono tradursi, se bene impostate, in esperienze concrete, praticabili e coinvolgenti: prevedere I tempi di attività da svolgersi a scuola e valutarne l’adeguatezza rispetto a determinati criteri e parametri, riflettere sulla pertinenza e sulla tempestività di azioni svolte da personaggi di racconti e di sceneggiati, ragionare sul fatto che il tempo non sia l’unico agente del mutare delle cose, ma ne sia una variabile, ancorchè essenziale: nel tempo tutto si trasforma, ma la durata, l’entità, la qualità delle trasformazioni derivano in gran parte dalle condizioni di vita dei soggetti considerati. E’ questa una consapevolezza che matura attraverso le esperienze di germinazione, l’allevamento di piccoli animali, l’intuizione del progressivo sviluppo di abilità proprie e dei compagni (linguaggio, gioco, socialità e così via): esperienze consuete, ma efficaci solo se finalizzate alla ricerca di un senso e mirate ad una sistematica riflessione.
Da parte sua l’intuizione dell’esigenza di far ricorso a fonti (materiali, fotografiche, filmiche…) che attestino al bambino la veridicità dei fatti accaduti nasce nel momento in cui egli percepisce che la sua memoria “si annebbia” quando tenta di riportare alla luce episodi della sua prima infanzia e si rende conto nel contempo che la testimonianza degli adulti che di tali episodi sono stati compartecipi tende ad essere alterata dall’affievolirsi o dall’esaltazione dei ricordi.
È questo un passo importante: da qui nasce la consapevolezza che la vera storia deve la sua fondatezza alla presenza di fonti: soggette a interpretazione, è vero, ma concrete, idonee ad essere interrogate e a svelare le tracce di un passato più o meno remoto, più o meno dilatato.
Sulla base delle fonti a cui rivolgere domande pertinenti l’orizzonte temporale del bambino si allarga a poco a poco: dalla storia personale a quella familiare, da quella generazionale a quella dell’ambiente di appartenenza, fino a quella di ambienti più complessi che si assomigliano o di differenziano in relazione a determinate caratteristiche.
È qui che si misura la capacità della didattica di passare da un approccio meramente descrittivo a una dimensione di problematicità: la ricerca degli aspetti e dei problemi che stanno alla base del lento verificarsi di fenomeni di mutamento (l’urbanizzazione, lo spopolamento delle campagne e delle montagne, la valorizzazione e il deterioramento dell’ambiente, le migrazioni, I rivolgimenti delle tecniche, delle mode, del costume… ).
Sono fenomeni questi che abbracciano archi temporali di anni, decenni, forse secoli; che, per la loro complessità e per la molteplicità dei fattori che li determinano, vanno affrontati orientativamente in terza, o quanto meno nel momento in cui la classe, a giudizio dell’insegnante, abbia acquisito un adeguato livello di maturità.
Per I confini circoscritti rispetto a quelli della storia delle nazioni e dei continenti, per le caratteristiche che li legano a determinati luoghi e circostanze, gli studiosi tendono a collocare tali fenomeni ed eventi nell’ambito di quella che viene chiamata microstoria.
Tuttavia essi rappresentano il tramite attraverso il quale il bambino arriva ad accostarsi alla vicenda dell’evoluzione umana e delle civiltà, il punto di vista privilegiato attraverso il quale riesce a inquadrare gli avvenimenti negli scenari di maggior respiro dei quali si intesse la storia.
In una prospettiva più ampia, da affrontarsi orientativamente nel secondo quadrimestre della terza, occorre che il bambino comprenda quali siano stati, nel corso del tempo, I bisogni fondamentali dell’uomo: non solo il nutrimento, il riparo, la difesa, ma la conquista dello spazio, la comunicazione, la socializzazione, la ricerca del divino, la spiegazione del mistero della vita, del dolore e della morte.
Le risposte che a tali bisogni ogni singola civiltà ha saputo dare in termini di filosofia di vita rappresentano I temi fondanti della vera storia. Capire come un popolo viva è forse più importante che sapere come e contro chi combatta.
È questo il momento cruciale dell’approccio storico: il bambino di otto-nove anni deve poter affrontare, da un lato, il “grande salto”, consistente nel passare dall’intuizione di tempi che abbracciano al massimo una-due generazioni ai tempi lunghissimi che segnano la prima evoluzione dell’uomo lungo l’arco della preistoria; dall’altro deve potersi misurare con alcune delle tracce che l’uomo ha lasciato lungo il suo cammino (reperti fossili, caverne, sepolture, incisioni rupestri…).
Nessuno pensa di trasformare l’alunno in un piccolo archeologo. Occorre tuttavia sottolineare l’interesse che egli dimostra nei confronti della preistoria, al punto che, in mancanza di una logica e di un metodo d’indagine che lo portino ad interrogare le tracce delle prime stirpi umane, arriva a costruirsi una cosmologia improbabile, le cui suggestioni gli derivano sovente da film e sceneggiati.
Indirizzare il bambino a dare un senso alle tracce e alle fonti comporta, da parte del docente, saperne valorizzare il patrimonio di conoscenze e di competenze per quanto ingenue possano essere, limitare all’essenziale le nozioni da fargli assimilare, coinvolgerlo in processi di ricerca e di scoperta derivanti da spunti e suggestioni che lo portino a formulare ipotesi da sottoporre, per quanto possibile, a successiva verifica.
Le fonti, soprattutto le più antiche, se non sono raggiungibili in musei a portata di mano, dovranno necessariamente esser presentate in fotografia. Quel che importa in tal senso non è tanto e non è solo la capacità di descrivere, quanto piuttosto quella di inferire dei significati plausibili.
Ad esempio: l’immagine di impronte umane rinvenute in anfratti dominati nel Paleolitico dall’orso delle caverne indica come l’uomo abbia dovuto affrontare pericoli mortali per cacciare e sopravvivere; I reperti di sepolture affiorate da altri siti archeologici fanno intuire un culto dei defunti fondato sulla fede ancestrale nella sopravvivenza; l’ esame dei reperti di un uomo di cinquemila anni tratto dai ghiacci porta ad ipotizzare aspetti inediti della sua identità, della sua vita, della sua morte, del contesto in cui è vissuto.
All’inizio di settembre l’Editrice “Il Capitello”, Torino, pubblicherà la prima parte della collana “Professione Insegnante – Storia”. Il lavoro, ad opera di Rosanna Davì Ferrarotti e Lia Ferrero Camera, dal titolo “La storia non è una favola”, comprenderà un volume di materiali ad uso del docente e uno schedario operativo rivolto agli allievi di 2a e 3a classe. Gli argomenti trattati riguarderanno I seguenti temi: “Pensiamo il tempo” e “L’avventura della preistoria”.
Sullo stesso argomento l’Associazione “N. Tommaseo” prevede per il prossimo autunno un corso di sei incontri di formazione.
Lia Ferrero
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