19 mar. 2020 - Marilena Revelli
Nella nostra città ci sono numerose scuole risalenti all’ultimo ventennio dell’Ottocento e ai primi anni del Novecento, quando si affermò la necessità di fornire un’istruzione primaria a tutti i cittadini; ma ve ne sono anche parecchie costruite negli anni Sessanta, epoca in cui la popolazione scolastica crebbe drasticamente.
Tra queste ricordiamo la scuola primaria Sibilla Aleramo, sorta nel 1960 in via Lemie nel quartiere Lucento, alle spalle del grande spazio in cui si trovavano le fonderie delle Ferriere. Il parco Dora sorge adesso al posto di quel complesso cupo, impenetrabile e misterioso, che si celava dietro il lungo muro perimetrale di via Verolengo, spandendo i suoi fumi lungo il rione e il fiume Dora. Rimangono il vasto scheletro della fabbrica, lasciato in sua memoria, e una ciminiera che fa da campanile alla chiesa del Santo Volto, costruita all’estremità del Parco. I casoni residenziali, colorati e anonimi, spuntati come funghi ai due lati del parco raccontano della nuova vita di un luogo un tempo destinato alla dura fatica del lavoro in fonderia.
La scuola ospita gli alunni che provengono dalle famiglie stabilitesi in queste case e comprende ventidue classi, le cui aule si affacciano su un atrio centrale, pensato per offrire lo spazio alle più svariate attività. Questo modello di edificio scolastico è comune ad altri edifici scolastici costruiti in quegli anni, come la Toscanini e la Armstrong, e viene definito “a forchetta” per via del prolungamento del suo braccio centrale.
La scelta di intitolarla alla Aleramo riflette forse il sentire e lo sviluppo del pensiero e dell’ideologia femminista degli anni in cui essa fu costruita. Sibilla Aleramo fu infatti una grande precorritrice dell’esigenza femminile di emancipazione, volta a guadagnare il rispetto e la considerazione della propria dignità.
Sibilla Aleramo è lo pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta Rina, nata ad Alessandria il 14 agosto del 1876, in una benestante famiglia borghese, prima di quattro fratelli. Quando Rina è ancora bambina, la famiglia si trasferisce a Milano e qui la fanciulla frequenta la scuola fino ai dodici anni. In seguito il padre otterrà la dirigenza di una fabbrica di bottiglie a Civitanova Marche e tutta la famiglia vi si trasferirà. Durante la prima adolescenza Marta fu vicinissima al padre che la indusse ad assumere la contabilità dello stabilimento, attività che Rina svolgeva con piacere e impegno. Si avvicinò così alle condizioni di vita degli operai e soprattutto delle operaie. La presa di coscienza della difficile condizione femminile si manifestò durante la sua adolescenza anche con la scoperta del tradimento del padre nei confronti della madre, che portò quest’ultima a un tentativo di suicidio e al suo successivo ricovero in una casa di cura per malattie mentali, nella quale morì. Rina non perdonò il padre e allo stesso tempo disprezzò la madre, incapace di sollevarsi e asservita alla sua condizione di sacrificio per il bene dei figli.
Purtroppo rimase vittima all’età di quindici anni di una violenza da parte di un impiegato della ditta e fu costretta ad un matrimonio riparatore, anche se poi abortì. Il marito era un uomo gretto, ignorante e prevaricatore, che non la rispettava. Due anni dopo nacque un figlio, Walter, che divenne tutta la sua ragione di vita e per il quale sopportò per dieci anni le angherie e i soprusi del marito, che le provocarono anche un tentativo di suicidio.
La famiglia intanto si era trasferita a Milano dove il marito aveva iniziato una nuova attività e Rina si sollevò da quell’episodio estremo con l’impegno letterario sfociato nella scrittura di articoli che vennero pubblicati sulla “Gazzetta letteraria”, “L’indipendente” e la rivista femminista “Vita moderna”. In seguito le fu affidata la direzione del settimanale socialista “L’Italia femminile”, fondato da Emilia Mariani, dove si firmava Favilla. Qui tenne in particolare una rubrica di confronto con le lettrici e ricercò la collaborazione di intellettuali progressisti – come Giovanni Cena, Paolo Mantegazza, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao. Ebbe anche l’opportunità di conoscere influenti dirigenti socialisti, come Anna Kuliscioff e Filippo Turati, e iniziò una relazione con il poeta Guglielmo Felice Damiani.
Partecipò alle manifestazioni per il diritto di voto delle donne, poi dovette abbandonare Milano per seguire il marito nuovamente a Civitanova Marche, ma la vita di provincia la soffocava, come il rapporto matrimoniale, ormai deteriorato.
Vinse così il timore di non poter più vedere il figlio e, spinta dal desiderio di mantenere la propria dignità, lasciò il marito trasferendosi a Roma.
Nel 1902 incontrò Giovanni Cena, direttore della “Nuova antologia”, romanziere e poeta, impegnato nel sociale: si occupava di sollevare dalla miseria e dall’ignoranza le popolazioni dell’Agro Pontino. A differenza del marito, Cena la incoraggiò, la fece sentire amata e apprezzò e condivise il suo impegno verso le classi più povere, in particolare l’aiuto che prodigava ai bambini bisognosi del quartiere di Testaccio.
Marta partecipò al comitato promotore della sezione romana dell’Unione femminile nazionale occupandosi - assieme a Cena, Angelo e Anna Celli - dell’istituzione di scuole serali femminili e di scuole festive e serali per contadine e contadini dell’Agro Romano.
In quegli anni iniziò la stesura del suo primo libro: “Una donna” romanzo e autobiografia insieme, che pubblicò nel 1906 con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, sceltole da Cena, che si era rifatto alla “terra d’Aleramo” evocata dal Carducci nella poesia Piemonte. Sibilla, senza mai fare nomi, (i personaggi sono sempre e solo definiti per il loro ruolo: marito, madre, figlio) denunciava la condizione delle donne e rivendicava la parità tra i sessi. Soprattutto riportava su un piano umano e meno idealizzato la maternità, esperienza fondamentale e significativa di amore, ma che non deve essere confusa con la dedizione unica e assoluta. L'opera, scritta in prima persona, è l’aperta e appassionata denuncia della grettezza dell’ambiente sociale in cui l’Aleramo visse, denso di ipocrisia e ignoranza. La narrazione, che oggi può apparire retorica, segue i canoni di inizio Novecento e racconta in modo appassionato le vicende che portano “la Donna” al riscatto della sua vita per ottenere dignità e rispetto di se stessa. Il romanzo suscitò un grandissimo interesse ed ebbe molti sostenitori, ma anche detrattori perché il tema trattava un argomento che stava affiorando e si insinuava negli strati colti e più aperti della società: l’emancipazione femminile. L’opera coinvolse intellettuali come Pirandello, che vide nel libro: “Un esempio di nobiltà e schiettezza, capace di restituire, nella sua semplicità, un dramma grave e profondo”.
L’immagine di Sibilla, ormai molto famosa, fu utilizzata dallo scultore Leonardo Bistolfi sulla moneta da venti centesimi di nuovo conio.
Il rapporto con Cena si deteriorò e da allora Sibilla condusse una vita piuttosto errabonda: soffocata dalla sua inquietudine aveva sempre le valigie pronte per partire verso nuovi luoghi.
Non si adeguò mai a ruoli o immagini femminili tradizionali, ebbe numerose e brevi relazioni sentimentali, alcune omosessuali, di cui la più nota è quella con Lina Poletti, soprannominata “la favola” e impiegata alla Biblioteca Classense di Ravenna.
Una delle relazioni più tormentate fu con il poeta Dino Campana, che conobbe durante la prima guerra mondiale. Al poeta era già stata diagnosticata la malattia mentale e non era stato inviato al fronte: ufficialmente era a casa per una nefrite. Fu un rapporto devastante, ma sicuramente appassionato, come tutti quelli che ebbe Sibilla, sempre desiderosa di ricevere e dare amore incondizionatamente. Entrambi erano passionali e portati a vivere all’estremo ogni esperienza, ma tanto era schivo e appartato lui, tanto era mondana e aperta lei. La loro vicenda assunse una connotazione leggendaria e sconvolse l’ambiente letterario dell’epoca, soprattutto per le parole orribili con cui Campana, prima di essere internato, si espresse sull’amante. Sibilla raccontò quei giorni folli e febbrili ne Il passaggio (1919), un’autobiografia romanzata, che destò scandalo e fu giudicata indecente. Alla loro vicenda s’ispirò il film Un viaggio chiamato amore, che uscì nel 2002 con la regia di Michele Placido.
Quando ritornò a Roma, nel 1928, Sibilla era ridotta in povertà: con l’affacciarsi dell’epoca fascista, aveva firmato tre anni prima il Manifesto degli intellettuali antifascisti e, poiché conosceva l’attentatore del Duce, Anteo Zamboni, fu arrestata. Si rivolse indomita a Mussolini ed ottenne un colloquio: era ridotta alla fame, viveva in una piccola soffitta gelida di via Margutta, abbandonata dai lettori e dai critici. Chiese di essere nominata membro dell’Accademia d’Italia, ma la richiesta venne respinta, perché le donne non erano ammesse. Poi però il Duce le concesse un mensile di mille lire e un premio di cinquantamila lire dell’Accademia. Divenne così un’aperta sostenitrice del regime fascista e nel 1933 si iscrisse all' "Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate".
Durante la seconda guerra mondiale, sconvolta dai fatti orribili che si succedevano, abbandonò la poesia per dedicarsi al racconto degli episodi tragici del conflitto: era il 3 novembre 1940 e da allora non smise più di annotare tutto ciò che succedeva, producendo una quantità immensa di diari che si interruppero solo con la sua morte.
Al termine della guerra maturò una nuova passione: quella politica, che la portò a iscriversi al partito Comunista nel 1946. Anche in questo campo il suo impegno fu intenso, sia sul piano politico che su quello sociale; collaborò inoltre con il giornale l’ “Unità” per il quale scrisse numerosi articoli.
Morì nel gennaio 1960, lasciando il ricordo del suo carattere indomito e libero e degli slanci passionali verso tutto ciò che la interessava. L’amore fu il punto fermo della sua esistenza vorticosa e le ispirò il titolo significativo del libro: “Amo dunque sono”.
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