di Valeria Amerano
So che questo articolo susciterà obiezioni, forse disappunto e qualche polemica; ma avendo insegnato parecchi anni nella scuola primaria statale e conoscendone le difficoltà, voglio descrivere quanto mi è accaduto di osservare in una località della riviera ligure durante una breve vacanza.
E’ il mese di giugno. Il più caldo che ricordi. Le scuole sono chiuse. (Estate Ragazzi è un’offerta e un’opportunità per chi la cerca). Torno da anni nello stesso albergo: un posto di solito frequentato da famigliole e pensionati con o senza nipoti al seguito. Un giorno, in sala da pranzo, mi dislocano su un tavolino defilato, disposto lungo il perimetro, per cedere la zona più centrale a una tavolata da dieci posti. Penso a un gruppo di amici in gita. Alle dodici e mezza invece vedo sfilare in sala una colonna di bambini dai sei ai dodici anni che, con ordine e quasi in silenzio, prende posto al centro e ai lati, secondo prescrizioni già ricevute e osservate con rigore. Nessuno protesta per sedere accanto a un compagno piuttosto che a un altro. Sono venticinque in tutto, guidati da tre maestre. Nulla di questo assetto mi ricorda la folla vivace e vociante dei refettori che ho conosciuto né gli iscritti ad Estate Ragazzi. Li avvolgo in un’occhiata muta e interrogativa - come quando nei caffè di Piero Chiara o Vitaliano Brancati arrivava, misteriosa e interessante, la straniera. Una delle tre maestre s’impone quasi subito come prima donna: raccoglie per alzata di mano le ordinazioni per agevolare il lavoro della cameriera: dieci paste al pesto, sei risotti, nove lasagne (hanno lo stesso menù degli altri ospiti dell’albergo). Impartisce ordini, rintuzza minimi atteggiamenti scomposti, raccomanda categoricamente alle bambine di presentarsi a tavola con i capelli legati. Se le più piccole non sono in grado, per favore, le più adulte le aiutino nell’operazione. I giorni trascorrono; la pluriclasse diventa uno spettacolo gradevole e rilassante all’ora di pranzo. Sono abbronzati, tornano dal bagno, ma nessuno è vestito come in spiaggia. Prima di scendere, si cambiano. E’ bello vedere i ragazzi di età diverse parlare fra loro a tavola, senza escludersi; mangiare di buon appetito; alzare la mano per comunicare con le maestre: due in ombra, una un po’ ingombrante. Secondo le regole, pretende che i primi ad essere serviti dalla cameriera aspettino gli altri per iniziare a mangiare; il risultato è che una bimba fra le più piccole, lenta, dispersiva e minuta, si ritrovi ancora alle prese con la pasta ormai raffreddata quando i più voraci aspettano già il secondo piatto. E’ una bellissima brunetta con grandi occhi neri che oppone ai rimproveri della maestra la resistenza passiva, intelligente e silenziosa dei gatti. Stupisco ogni volta a vedere l’ingranaggio bene oliato, l’autogoverno, il saper stare insieme dei ragazzi comunicando senza insofferenze. Alle spalle c’è sicuramente una lunga abitudine a cooperare e alla socialità. Deve esserci anche, non secondaria, una buona educazione di base. E all’improvviso mi sveglio: ma dove sono in questo acquario i pierini? Ovvero i prototipi delle classi normali: i nomadi, le simpatiche canaglie pagliaccesche (ne ho sempre avute almeno due all’anno: il comico e la sua spalla), le espressioni del disagio contemporaneo, i diversamente abili? Dov’è il melting pot? La ricchezza multiculturale…?
Prima di uscire dalla sala mi fermo al tavolo delle insegnanti. Ormai non posso più tenermi la curiosità che mi preme in gola: “Scusate, la vostra non è una scuola pubblica, vero?” mi chino a domandare.
“No”, mi risponde la prima donna. “Siamo parificati”.
“Da dove venite?”
“Milano”.
Parificati. Milano. Noi diversamente freschi. Torino.
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