Ai miei monelli

Nell'intervallo delle dieci maschi e femmine si divisero in gruppi omogenei. I maschi si strinsero intorno alle figurine. Se discutevano, era con prepotenza: la testa e la voce impennate, aggressivi come galli, la mano che frugava l'aria davanti alla bocca prima di spintonare o acciuffare il contendente per la maglia. Parole e atteggiamenti da guappetti.
Le femmine si disposero in cerchio per accompagnare col canto la danza di due prescelte a muoversi nel centro. Erano intonate e accattivanti nelle movenze. La canzone, giuro, l'avevo mai sentita prima:
"Spagnolita, ti voglio tanto bene
che una rosa ti voglio regalare.
No no no, la rosa non la voglio
ma voglio il portafoglio
se vuoi vivere con me.
Spagnolita olè
questo ballo è per te".
Avevo vinto il concorso. Ero arrivata al Sangone, nel borgo della Bela Rosin. Sentii stridere il confronto coi bambini viziati e bamboleggianti che avevo lasciato in un quartiere di erre mosce, madri dal buon tempo e padri storditi dai fusi orari. Sentii l'odore guasto della vita confinata ai margini della città bella e conosciuta; vidi negli occhi dei ragazzini la precocità amara, il prezzo delle cose, la distanza fra le loro case e i luoghi delle favole. Avevano la piega storta del sorriso di chi ha visto molto del peggio, e troppo presto. Mi afferrò un malessere fatto di pena e rabbia per le stagioni bruciate, le radici perdute, le scorciatoie facili e insidiose. Li guardavo giocare: erano vivi e febbrili nella loro violenza, sensibili come nervi scoperti, eccessivi nel darsi: alle risse o alle ovazioni.
- Sapete altre canzoni? - chiesi alle femmine.
Mi volarono intorno: - Tante. Quale ti piace? Vuoi Maledetta Primavera?
- Sì... Maledetta Primavera, sì.
Una bimba più piccola delle compagne, una brunetta lentigginosa con gli abiti macchiati, guardò un maschio che nel frattempo aveva lasciato il suo gruppo per avvicinarsi tronfio, con le mani in tasca. Era il fratello gemello. Lei lo fissava sottomessa, in attesa. Lui assentì con un cenno del mento: le aveva dato il permesso di cantare.
- Devi decidere da sola, - dissi. - Non lasciare che un altro decida per te.
- Ma io sono suo fratello! - si girò attizzato.
- Va bene, ma la tua volontà vale quanto la sua. Non sei il suo padrone. Se tua sorella vuol cantare, canta. Se non vuole, sta zitta. Ma non perché lo dici tu.
Il gemello mi rifece il verso, e i suoi gregari risero con lui per devozione e per paura.
Ora le bambine si alternavano a due o a tre in fondo all'aula, su una ribalta improvvisata. Sapevano le ultime canzoni e quelle più vecchie, imparate dai dischi delle sorelle grandi. Cantavano tenendosi per mano. Avevano voci belle e robuste che mi granavano la pelle. Cantavano con un'ombra matura nella voce e lo stupore che potesse piacermi tanto ascoltarle. Sentii nella commozione e nell'impulso di andarmene il fascino crudo della verità di quel posto e capii che mi sarei fermata.
- Di che squadra sei? - mi domandò Vezzardi, il biondino.
- Nessuna squadra...
- Non è possibile!
- Quand'ero piccola e giocavo ero della Juventus... Poi mi è passata...
- Giocavi?!...
- Sì, mi piacevano i passaggi e i tiri in porta... A scartare non ero brava, mi si imbrogliavano i piedi... C'era un bel prato sotto casa mia, si giocava bene... Poi hanno costruito tante case, e il prato è sparito...
- Devi essere di una squadra - insistette Vezzardi.
Non volevo dividerli né deluderli: - Vediamo, ne sceglierò una che non faccia litigare nessuno: il Lanerossi Vicenza.
- E brava la maestra! - rise il gemello. - Chi si credeva che era del Toro o della Juve... - concluse col gomito piegato e una pernacchia.
- Vuoi venire in bici con noi la domenica? - m'invitò Vezzardi.
- Dove andate?
Si guardarono maliziosi: - Al Sangone... Domenica abbiamo preso una biscia e l'abbiamo messa in una bottiglia, ma adesso è morta... Poi c'era un vecchio che si faceva il furbo e noi, appena se n'è andato, gli abbiamo distrutto l'orto... Così impara, 'sto scemo!
Declinavo gli inviti e mi sfiatavo: il rispetto degli animali, delle persone e delle cose... Se avessero distrutto il loro, di orto?...
Di solito chiamavo gli alunni per nome. Non Vezzardi, che chiamai sempre col cognome. La scusa più ovvia era evitare che si voltassero in due, perché aveva il nome uguale a un altro con il corpo maculato di licheni di sporcizia; in realtà lo chiamavo col cognome poiché ci sono ragazzini la cui personalità si guadagna fin dal principio il diritto naturale ad essere considerata unica e distinta dal resto del vivaio. Il distacco dell'insegnante nasconde in realtà una specie di riconoscimento all'alunno chiamato col cognome, anche quando a brillare non siano le sue qualità migliori. Vezzardi era un biondino magro e snodato, intuitivo, furbissimo e di poche parole (e quelle poche mordaci), la faccia piatta di James Cagney, gli occhi verde acqua non innocenti e i riccioli di Narciso. In palestra guizzava togliendo la palla con scarti imprevisti rapidissimi che rendevano netta la sua superiorità sui compagni. Giocava con la testa e uno stile che presupponeva il temperamento del solitario e l'osservazione attenta degli avversari.
Guardava negli occhi e capiva le cose dietro le parole. Affidabile ma non servile, capace di tacere un'offesa per essere libero di vendicarla fuori a modo suo, risoluto e autorevole, in classe era circondato di un rispetto conquistato naturalmente: più che con la violenza col magnetismo dello sguardo, la determinazione della voce e il coraggio con cui interveniva alle dispute. Aveva un suo primitivo senso della giustizia che gli permetteva di ristabilire fra i litiganti una sorta di ordine tribale, fondato sul rispetto di baratti equipollenti, spartizioni controllate, fedeltà alle promesse. Vezzardi era l'unico con cui il gemello non osasse attaccare briga. Senza essere dichiarati antagonisti, essi si misuravano a distanza; e la scolaresca dietro di loro si scindeva in due ali, non contrapposte ma schierate al momento di un contrasto: chi si sentiva più sicuro e protetto dal sanguigno e irruente gemello, chi spontaneamente era attirato nell'orbita del freddo e logico Vezzardi.
Io dovevo ritagliarmi spazio, credibilità e seguito in questo delicato equilibrio. La scuola era ogni giorno in competizione con la strada. E siccome la strada offriva molte distrazioni, la scuola doveva essere sempre un po' più interessante e utile della strada - e mai ignorarla.
Nessuno uccide i propri idoli per convertirsi in un giorno.

Rosario era l'undicesimo figlio di un usciere del municipio; Gavino il nono di una vedova che firmava con la croce e non toccava a terra quando, alle assemblee, si sedeva sulle sedie dei bambini.
Negli alloggi abitati dai due nuclei originari delle famiglie tornavano, in flussi migratori, sorelle e cognati pugili sfrattati, fratelli separati con i nipotini, nonni in visita al continente. Nella confusione delle case sovraffollate si perdevano astucci, quaderni, indumenti, documenti.
Rosario e Gavino non andavano molto d'accordo, ma erano vicini di casa e compagni dalla nascita; e a vederli insieme, la mattina, lungo la strada delle case grigie che portava a scuola, facevano una bella coppia. Piccoli, bruni, la corporatura quasi compiuta di due ometti la cui altezza si sarebbe presto assestata, venivano avanti lenti cozzandosi per indolenza e per gioco con le cartelle rigide appese alle spalle; Rosario più svogliato di Gavino, più permaloso e ciondolante. Dall'autobus li vedevo fermarsi intorno ai cassonetti. Mentre frugavano tra il ciarpame depositato fuori in cerca di qualcosa di interessante da portare a scuola, io pregavo che non trovassero nulla e mi preparavo, in caso contrario, le parole più persuasive per indurli a sbarazzarsi dei reperti. Un accendino funzionante, i resti di un go-kart e una ventola da cucina mi avevano già lasciato dei cattivi ricordi. Un giorno poi erano arrivati a scuola sulla carcassa di un passeggino: Rosario accovacciato sopra con le due cartelle e Gavino che spingeva a tutta forza.
Quando litigavano si avventavano l'uno contro l'altro e occorreva essere svelti a dividerli, a costo di prendersi qualche calcio. Allora continuavano a mostrarsi i pugni urlando apprezzamenti poco lusinghieri intorno alle reciproche parentele. Rosario era istintivo, pigro, fiaccato da una stanchezza che gli appesantiva le palpebre e lo sguardo torbido sotto le lunghe ciglia; sempre in cerca di un doppio senso nelle parole degli adulti. Iniziava con entusiasmo lavori che non finiva mai, respingendoli da sé al primo errore o alla prima difficoltà. Vinto dal sonno - perduto la notte davanti a un televisore sempre acceso - spesso crollava la testa sul banco; e i compagni, dal brusio incessante in cui svolgevano i loro lavori, si facevano zitti per qualche minuto passandosi di bocca in bocca una felpata consegna: "Ssst... S'addorme!"
Gavino s'impegnava di più e non si scoraggiava di fronte alle novità. Ma quando, dopo una spiegazione, li mandavo a uno a uno alla lavagna ad eseguire un'operazione per rendermi conto di quanto avessero capito, Gavino e Rosario chiedevano di essergli ultimi. Prima di cominciare si giravano a guardare gli altri seduti; sorridevano timidi come dovessero esibirsi in palcoscenico; finalmente guardavano la divisione o l'equivalenza che li aspettava sulla lavagna. E avevano lo stupore divertito, la curiosità e la cautela della persona di terra che entra in acqua.
D'inverno Rosario veniva a scuola con un berretto di lana, la sciarpa e i guanti verdone. E un ciuffetto dello stesso colore sulla punta del naso: i peli di lana ceduti dai guanti al moccio permanente. Era la fine degli anni Settanta, e tutti i bambini portavano i moon-boots. Una mattina Rosario li aveva calzati al rovescio, il piede destro nel sinistro. Intorpidito, aveva camminato con gli stivali che gli comandavano l'andatura, senza accorgersene, fino a scuola. Glielo avevo fatto notare e lui, ridendo, se li era sfilati con comodo e li aveva rimessi solo dopo aver sgranchito bene le dita dei piedi davanti a tutti. Il gemello e Vezzardi lo avevano preso in giro bonariamente, e lui s'era lasciato dire dai maggiori ciò che non avrebbe tollerato dai suoi pari. Ma ecco, a un tratto, superato ormai l'episodio, mentre già registro le assenze e le linee del programma giornaliero, mi viene alla cattedra il gemello, si abbassa a parlarmi in tono confidenziale perché non sentano i compagni e, vagando sulla pagina della mia agenda, dice: - Per favore, maestra, mi guardi se anch'io mi sono messo gli stivali sbagliati?...
Guardo fuori della finestra, dubitosa (che devo fare? umiliare un capo o ingraziarmelo?), torno sull'agenda e distrattamente butto l'occhio a terra come mi fosse caduto qualcosa ai suoi piedi; poi lo fisso, severa e ricattatoria: - No, sei a posto.
- Grazie, maestra.
Un mio passo verso di lui ne avrebbe pretesi molti dei suoi verso di me, e lui lo sapeva.

Il giorno della gita al lago Maggiore Gavino arrivò vestito da sposo. Aveva addosso il vestito blu della cresima di un fratello grande, la camicia di seta bianca con i jabot e le scarpe nere di vernice lunghe almeno due numeri più del necessario. Il gemello e Vezzardi cominciarono a zufolare la marcia nuziale e a rumoreggiare con la bocca. Le bambine sghignazzavano. - Ma perché ti sei vestito così elegante? - domandai interdetta.
- Mia madre dice che la gita è come la festa del paese. Non vado mai da nessuna parte, io. È un giorno importante.
- Ti avrà anche detto di non sporcarti, la mamma.
- Sì sì.
- Molto bene... Come fai a giocare e a non sporcarti? In gita si viene vestiti come sempre, o anche peggio per essere liberi di correre, di sedersi per terra... Guarda me: sembro una montanara. Andiamo, va'...
C'era ancora una cosa che Gavino doveva dirmi: - Ha detto mamma che devo stare seduto davanti nel pullman se no rovescio.
Al primo autogrill eravamo già fermi. Prima di scendere raccomandai di non comprare nulla all'emporio: - Qui costa tutto il doppio che al mercato sotto casa vostra. Non spendete soldi e non sguinzagliatevi. Andate in bagno e tornate vicino a me. Mi fido.
Avrebbero fatto tutto il contrario, era chiaro. Entrati nel locale, si sparsero come germi sparati da uno starnuto. Io li perdevo d'occhio ma loro non perdevano d'occhio me, come chi è abituato a guardarsi intorno per scappare; al minimo cenno di radunarsi si passavano la voce e tornavano a ricomporre il gruppo dagli angoli più disparati. Una volta ripartiti, quando ormai non correvano più rischi, mi mostrarono raggianti gli acquisti. Il più inquietante era quello di Vezzardi: un sacchettino di due etti di lamponi di zucchero, un concentrato di coloranti sul quale mi pronunciai seria: - Se credi di mangiare tutta quella porcheria velenosa in un giorno, vai a finire in ospedale. Non scherzo.
Un'ora dopo non ne aveva più (e ai compagni ne aveva dati pochi). Aveva la lingua come un catarifrangente e la pancia che gli faceva male. Si avvicinò: - Maestra, devo andare in bagno - disse agitando una mano all'altezza del ventre.
- Lo immagino. Facciamo fermare il pullman e scendi.
- No, io voglio il boschetto.
- Cosa vuoi tu?!
- Le femmine dell'altro pullman non devono vedermi: c'è su la mia fidanzata...Voglio il boschetto.
Andai davanti a parlare con l'autista. Una bidella accompagnò Vezzardi giù dalla riva erbosa e quello alla meglio si accoccolò dietro un cespuglio. La giornata passò fra i trattenimenti consueti: la visita alle tre isole, le fotografie che mi piaceva scattare ai bambini quando non erano in posa, la distribuzione del pasto confezionato dalla mensa, la scrupolosa raccolta di carta e rifiuti da buttare nei contenitori, un acquazzone, la passeggiata fra le bancarelle degli oggetti ricordo, le discussioni per far scendere Vezzardi e il gemello dalle piante di mandarino.
- Guardali, maestra! Salgono sugli alberi! - era la protesta sofferta di Gavino che, vestito da sposo, si vedeva costretto a restare a terra. E quelli, dai rami: - Ma statti zitto, Romeo! Vatti a cercare Giulietta, va'!...
La mattina seguente entrai in aula soddisfatta, contenta di rivederli. Trovai ad attendermi un silenzio strano, preparatorio, grave. Fra i maschi scivolavano sguardi d'intesa e cenni maliziosi come in una partita a carte truccata.
- Che c'è? - sorrisi. - Mi dovete dire qualcosa?
Prese la parola il gemello, con quegli ammiccamenti levantini che imbrattavano i suoi otto anni: Eh!... Ieri un bambino ha fatto una cosa brutta alla gita...
- Ah sì? E cos'ha fatto?...
- Ha rubato.
Finsi di non capire: - Ah... E noi lo conosciamo?... Sarà uno delle altre classi, no?
Si alzò dal banco e ondeggiando le spalle venne a posare sulla cattedra un cerbiatto segnatempo, uno di quegli oggetti che si colorano di rosa o di azzurro secondo l'umidità. Dopo di lui, altri sfilarono silenziosamente. In breve mi trovai allineati davanti un'oca, una ballerina, uno scarpone, un mulino a vento, una barchetta.
- Bravi...Proprio un bel bottino! ...Che delusione!...
- Dai, potevamo tenerceli - disse Vezzardi.
- Potevate non prenderli. Le cose o si pagano o si lasciano dove sono.
- Non c'erano più soldi, mae'...
- Certo. Li avevate spesi tutti nei dolci all'autogrill... Ma ditemi: li avete rubati tutti dalla stessa bancarella?
- Noo! E che?... Se li prendevamo tutti dallo stesso, quello se ne accorgeva... Un po' di qua, un po' di là... Non è che il danno se l'è tenuto uno solo...
- Non è meno grave anche così. Potevate dirmi: ne vorremmo uno da tenere in classe: ve lo avrei comprato... Apprezzo il fatto che vi siate pentiti, ma non dovete più rubare.
- Che ne facciamo adesso, maestra? - domandò sbrigativo Vezzardi.
Guardai avvilita lo schieramento che dal rosa sfumava all'azzurro pallido. Il tempo stava cambiando. Venne un'idea alla gemella: - Li diamo a Don Bartolo per il banco di beneficenza, così può darsi pure che li rivinciamo...

Valeria Amerano