Un povero

di Valeria Amerano

Guardava passare i treni per non ricordare che più nessuno l’aspettava.
Se gli si fosse appiccicato un cane, non lo avrebbe scacciato. Gli sarebbe sembrato un dono del destino, una di quelle coincidenze che fanno incontrare le persone in viaggio nella stessa carrozza, ma con meno formalità. Col cane sarebbe stata subito una questione di solitudine e di odori. Abbastanza per capirsi senza galateo e farsi compagnia. Pedro o Pancio lo avrebbe chiamato, se gli fosse capitato tra i piedi.

La gente scendeva e saliva, si affrettava intorno con i bagagli e intanto continuava a parlare al telefono con i fili piantati nelle orecchie. Le ruote delle valigie, gli annunci dell’altoparlante e il vocio dei passeggeri nella serra della stazione assicuravano un sottofondo stagnante e attutito che cullava il sonno e riempiva la veglia immota con la frenesia delle mete degli altri. Da anni non aveva più appuntamenti, posti dove andare e dove ritornare. Non era stato sempre così. Una volta girava anche lui negli ingranaggi della massa indistinta che colora le statistiche; aveva un posto, una casella di commesso nel grande negozio di elettrodomestici, aveva un matrimonio cigolante come tutti, andava in ferie, teneva una chitarra appesa in cantina perché la moglie non voleva vederla in casa, spendeva soldi per i regali ai figli. Finché la vita non lo aveva risputato e lui se n’era trovato fuori, espulso come un monello da scuola. Perso il lavoro, la moglie se n’era andata lasciandogli qualcosa più di un sospetto che non aspettasse pretesto migliore per mollarlo. I figli più che rami di uno stesso albero gli sembravano cavità del fusto. Uno aveva maniche di tatuaggi e andava col suo gruppo ad imbrattare i treni, l’altra aveva interrotto gli studi per seguire un giostraio. A cinquantadue anni era tornato a vivere con la madre, la sua pensione, qualche lavoro saltuario da una ferramenta che lo mandava a sostituire nelle case tapparelle e cintini. Poi un giorno una stupida depressa s’era trovata a mancare dei soldi da un cassetto e, non sapendo che fine avessero fatto o dove li avesse spesi, era andata a insinuare che poteva averglieli soffiati l’operaio che la ferramenta le aveva mandato a casa. Lui non aveva toccato nulla; il proprietario sembrava poco convinto della lucidità della cliente, tuttavia non lo aveva più chiamato perché, in fondo, non lo conosceva abbastanza per escludere sorprese e voleva togliersi dagl’impicci. Si accese una sigaretta trovata. Era dagli anni della chitarra che non fumava più; gli anni migliori e più leggeri della vita: quando in quattro si ritrovavano in una cantina di periferia a sognare di diventare i nuovi Renegades di Lungo Stura. Maxi picchiava sui piatti della batteria con i capelli ondulati che gli arrivavano ai gomiti, aveva la testa come il ceppo di un rovere; Tony faceva gemere e latrare la chitarra elettrica. Lui spremeva il mug e Leo cantava canzoni scritte alla scuola serale di disegnatore di carrozzerie. Era tutto divertente e risibile, a portata di mano; e se non si diventava nessuno c’era sempre l’indomani per inventarsi una nuova vita, un nuovo progetto da fare e disfare. Il bello del lavoro che non ti garantisce nulla è la libertà che ti lascia. Un po’ di scuola, mezza giornata al negozio e la sera a suonare. Poi la vita si assesta nei contratti: di lavoro, di matrimonio e sembra pigliare una strada. A vedersi licenziato all’età in cui un tempo la gente cominciava a fare i calcoli per andare in pensione, gli era sembrato di sprofondare. Le lavatrici, i televisori, i cubi Hi-Fi che avevano venduto negli anni Ottanta! Il magazzino aveva prezzi concorrenziali e c’era sempre la coda. Poi erano arrivati i grandi centri commerciali con le offerte speciali. La merce invecchiava rapidamente e si divorava da sola: i modelli duravano una stagione come i vestiti delle donne; la telefonia, i computer, i CD… I televisori allineati sugli scaffali erano pesanti scatoloni rispetto ai nuovi leggeri schermi digitali; i lettori di videocassette in un momento diventarono ingombri superati e inutili. Occorreva personale specializzato e i prezzi non potevano reggere il passo con quelli degli ipermercati. Il negozio cominciò a cedere tre vetrine al ristorante cinese, e via via a restringere spazi e personale in una resa inevitabile. Il figlio dei proprietari prese una tabaccheria, e i due anziani genitori si ritirarono a malincuore dal commercio che per due generazioni era stato la loro passione, il loro salotto, la fonte di vita. Così s’erano chiusi tanti negozi a Torino; storici empori avevano abbassato le saracinesche lasciando in vista desolazione e abbandono; qualcuno era finito male. Lui anche peggio. Andava al dormitorio e mangiava alla mensa dei poveri. Si lavava ancora. Più che per se stesso lo faceva nel ricordo di sua madre, che alla fine, doveva riconoscere, era stata l’unica persona a volergli davvero bene.