di Lorenza Patriarca (Dirigente Scolastica dell'I.C. Tommaseo di Torino)
Da anni ci eravamo abituati ai tagli di risorse e di personale. Ogni Riforma portava con sé nuove riduzioni di organico e di finanziamenti. Questa volta tutto sembrava diverso. Il Presidente del Consiglio in persona, anziché il Ministro di turno, si attribuiva la paternità della nuova Riforma che si chiamava “La buona scuola” e il sottotitolo con cui era presentata alle consultazioni recitava “Per far crescere il Paese”. Non si parlava della scuola per evidenziarne problemi e disfunzioni, ma si enfatizzava l’importanza dell’istruzione come fattore di sviluppo sociale.
Qualche dubbio sulla bontà dell’operazione Renzi era lecito nutrirlo, considerata la fretta con cui si stava procedendo e la disattenzione verso la voce dei professionisti della scuola e delle organizzazioni sindacali, ma la proposta conteneva importanti novità che attendevamo da anni - l’organico funzionale, la formazione obbligatoria, la differenziazione del ruolo docente, la valorizzazione del merito, la revisione e la semplificazione dell’impianto normativo, il raccordo con il mondo del lavoro e con l’università – e perciò sembrava una fatto molto positivo. Se poi si guardava al testo della 107 e si leggevano le cifre stanziate per l’attuazione dei nuovi istituti contenute nei commi da 201 a 210 dell’art. 1 per garantire la dimensione pluriennale e la messa a sistema delle innovazioni introdotte, sembrava che il vento fosse definitivamente cambiato e che ci si trovasse di fronte a una nuova stagione di investimenti sulla scuola, finalmente al centro del processo di sviluppo e di rinnovamento.
Per questa ragione i dirigenti scolastici inizialmente avevano accolto la Legge con spirito costruttivo, impegnandosi al meglio per realizzare gli obiettivi di utilità pubblica previsti e per garantire il successo dell’impresa. A pochi mesi dall’avvio dell’anno scolastico, purtroppo, quello spirito positivo si sta esaurendo, superato dal senso di scoramento e dalla fatica per la grande mole di lavoro condotto in solitudine e a dispetto degli ostacoli che la stessa amministrazione, per inedia o miopia, sembrava costruire contro il suo stesso disegno riformatore, sottraendo il tempo per riflettere e per monitorare i cambiamenti a coloro che avrebbero dovuto gestire la riforma. L’atteggiamento è mutato proprio quando il ruolo dei presidi, così come le condizioni di contesto in un sistema fluido e totalmente innovato, assumevano un ruolo determinante per la qualità delle decisioni in un momento in cui più di un terzo dei capi di istituto è di recente nomina e oltre 2000 scuole in Italia sono assegnate in reggenza.
Date queste premesse e stante il fatto che nella scuola italiana la diversità degli esiti di apprendimento rappresenta il problema più importante da risolvere, ciò che maggiormente emerge è che la Riforma manca di quei meccanismi di controllo e contrappeso che permettono di garantire uniformità al modello e coerenza alla proposta delle scuole e che, al di là delle diversità necessarie, rendono riconoscibile la loro appartenenza a un comune sistema di istruzione.
Come in altri settori di sviluppo, anche il servizio scolastico offerto al cittadino è molto diverso se si abita a Trento o a Milano invece che a Palermo. E differenze vistose si segnalano anche nello stesso territorio tra una scuola e l’altra in relazione a chi le gestisce, o alla qualità dell’Ente Locale di riferimento, o ancora alla situazione socioeconomica della zona di riferimento dell’istituto. Di fatto ad oggi la tanto sbandierata uguaglianza di opportunità, che la Costituzione dovrebbe garantire, è purtroppo ancora una chimera, così come è fantascienza parlare di servizio minimo essenziale in aree del Paese dove i percorsi scolastici degli studenti sembrano fenomeni carsici.
Purtroppo in assenza di una vera Riforma dell’Amministrazione centrale, i problemi negli anni si sono acuiti anziché ridursi. Nei sistemi scolastici con una forte tradizione autonomistica sono previsti modelli di controllo e correttivi che garantiscono una gestione unitaria e fissano standard di qualità per tutti. Nella maggior parte dei paesi avanzati sono chiari i profili professionali del personale della scuola, è previsto un solido sistema di formazione iniziale e in servizio del personale, è assicurato un monitoraggio dei risultati, esistono supporti dedicati alle realtà più difficili e la valorizzazione del personale si fonda su retribuzioni più dignitose per tutti e su un modello di gestione realmente trasparente.
La Legge 107, anziché tentare di sanare questi problemi, rischia ora di peggiorare una situazione già critica. Molte delle risorse finanziarie messe in campo, per esempio, prevedono che la scuola partecipi a bandi di selezione regionali o nazionali. Nel trimestre ottobre/dicembre la mia scuola ha partecipato a ben 14 selezioni con uno sforzo e un impegno progettuale davvero importanti. Si tratta di una procedura che senz’altro stimola la creatività e l’innovazione, ma penalizza le scuole più deboli, dove ci sarebbe piuttosto bisogno di maggior sostegno e si sottrae tempo e spazio alla didattica, alla supervisione e alla gestione dell’istituto.
Ugualmente l’assegnazione dei docenti dell’organico potenziato sulla base delle richieste inserite nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa presuppone una capacità previsionale e organizzativa che non è sempre diffusa e che privilegia quelle realtà meglio gestite che sono in grado di giustificare e argomentare i propri bisogni, mentre le tante scuole in difficoltà, anche solo perché prive di un dirigente titolare, o con un capo di istituto ancora in formazione, oppure in affanno a causa di un contesto difficile, rischieranno l’impoverimento.
La scelta dei docenti cosiddetti di potenziamento, titolari degli ambiti territoriali, da parte del preside, presentata come un modo per innalzare la qualità delle risorse della scuola grazie alla selezione e per valorizzare il merito, rappresenta un'altra area critica e una potenziale fonte di nuove disparità. E’ infatti prevedibile che le risorse professionali più qualificate in un determinato ambito territoriale siano assegnate alle scuole che in quell’area godono di maggior credito. I docenti professionalmente più titolati, infatti, riceveranno ipoteticamente molte proposte di assunzione e potranno scegliere dove prestare servizio, mentre i docenti meno esperti e che comunque, essendo ormai assunti in ruolo, dovranno trovare una collocazione, finiranno per essere assegnati alle scuole più deboli i cui presidi probabilmente non li avrebbero mai scelti.
Per non citare l’altro grande rischio derivante dal sistema della chiamata diretta dei docenti da parte del dirigente che rischia di mettere in crisi uno dei capisaldi costituzionali della scuola, quello della libertà di insegnamento, pensato per garantire una pluralità di posizioni culturali e di modelli didattici all’interno della cornice condivisa del Piano dell’Offerta Formativa. Siamo sicuri che la scelta dei docenti da parte del dirigente scolastico a regime non rischi di trasformare le scuole in isole monocolore sul piano culturale? Senza nascondere che un modello di assegnazione dei docenti così farraginoso e privo di regole chiare, esporrà i presidi a una nuova stagione di contenziosi senza offrire garanzie di continuità agli studenti o di miglior servizio alle scuole. Cosa succederà se due o più dirigenti individueranno lo stesso docente? Saranno davvero i presidi a scegliere il personale o saranno piuttosto i docenti a scegliere le scuole o le situazioni più “comode”? E’ probabile che tutto si risolverà in un aumento dei carichi di lavoro per i dirigenti scolastici tenuti a giustificare e pubblicizzare ogni assunzione discrezionalmente individuata, mettendo in atto nuove e complesse procedure di trasparenza con la certezza di doversi difendere dai ricorsi degli esclusi. Per non parlare dei tempi di avvio dell’anno scolastico, con i docenti da assegnare sui posti lasciati vacanti, o sulle disponibilità annuali a supplenza, che con la chiamata diretta rischia di vedere gli insegnanti in cattedra in tempi così avanzati dell’anno da far rimpiangere il vecchio modello delle graduatorie a esaurimento.
L’ultima delusione è venuta dall’organico potenziato che avrebbe dovuto garantire alle scuole un margine di flessibilità nell’assegnazione delle cattedre in una realtà dove i tagli di organico precedenti avevano irrigidito il modello orario saturando l’orario frontale di docenza. Avevamo sperato di poter finalmente realizzare l’autonomia organizzativa necessaria a dare corpo alle scelte didattiche dichiarate nel nostro piano dell’offerta formativa, ma le risorse assegnate, oltre a non essere della tipologia di cui sarebbe stato utile disporre (gli istituti professionali si sono visti assegnare orde di musicisti e i licei classici stuoli di docenti di diritto economia), erano spesso privi di ogni formazione iniziale o demotivati perché costretti a prestare servizio a migliaia di chilometri da casa.
Per non parlare del modello di valorizzazione del merito che propone un macchinoso sistema di definizione dei criteri di individuazione dei docenti da premiare costruito autonomamente da ciascuna scuola, in assenza di indicazioni nazionali e di linee guida e dove prevarrà il sistema del “mi arrangio”. Si tratta di una proposta pensata per incentivare il singolo, quando invece l’autonomia dovrebbe privilegiare la dimensione di comunità e dove l’innovazione dovrebbe nascere dagli sforzi del gruppo. Non sarebbe stato forse più coerente pensare di valorizzare l’apporto di ciascuno verso una scuola che apprende e che si migliora senza rischiare di costruire le graduatorie di chi corre più veloce degli altri mettendo a punto un modello fondato su obiettivi aziendali o meglio di istituto?
Ecco perché avremmo dovuto riflettere con calma sull’impatto delle singole azioni riformatrici e imparare dagli errori, sperimentando i necessari correttivi dove emergevano le criticità. Se, come dice il proverbio, “La gatta frettolosa fa i gattini ciechi”, certo una Riforma malfatta produce danni e inciampi pericolosi.
Per tutte queste ragioni, se si sceglie la bussola dei valori costituzionali e se davvero si vuole lavorare per il benessere del sistema, vien da pensare che forse la messa a regime della “Buona scuola” potrebbe, o dovrebbe, attendere ancora.
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