Il telefono a muro

di Valeria Amerano

Si teneva un piccolo consiglio di famiglia per decidere dove piazzarlo, in genere nell'ingresso, nel luogo meno indicato, a ben vedere, perché la tromba della scala avrebbe fatto da amplificatore alle conversazioni più concitate. Ma l'ingresso di un appartamento, in tempi in cui s'ignorava l'open space o il living, era anche il posto più facilmente raggiungibile da qualsiasi stanza e vicino alla porta di accesso, per arrivare in fretta a rispondere sentendo il trillo imperioso dall'ascensore. Parlo del telefono a disco fissato al muro, non già del modello più moderno poggiato a tavolino, dov'era consentito parlare più a lungo accomodati su una poltroncina.

Voglio ricordare il telefono che ci obbligava a stare in piedi, a torcerci in involuzioni per non essere uditi, ad essere brevi per non bruciare l'arrosto sul fuoco e perché, alla lunga, stare dritti con un braccio appeso al ricevitore stancava. Soltanto mia nonna, mi risulta, aveva fatto collocare, in tarda età, il telefono nel ripostiglio: per dettare discretamente a suo fratello, ogni sabato pomeriggio, le estrazioni del Lotto che lui era troppo sordo per essere sicuro di avere udito bene alla radio e troppo ansioso per aspettare di vederle pubblicate l’indomani sul giornale.

Era il tempo della telefonata che irrompeva e s'intrecciava alla vita della famiglia: un avvenimento di cui si chiedeva conto a chi aveva risposto, si riferiva, si commentava a voce alta. Già dal tono della risposta s'indovinava il seccatore, il parente depresso, l'amico buontempone, la zia che batteva cassa; e intanto la mamma scodellava la minestra. L'interurbana si annunciava con uno squillo protratto che metteva in ansia per la sorte dei parenti lontani, e la voce si alzava naturalmente perché sembrava impossibile farsi udire da un interlocutore distante senza aumentare il volume. La rottura di un fidanzamento o un sospirato ritorno erano rivelati al resto della famiglia dalla centralità del telefono, che si animava diventando all'improvviso un nemico, un mostro di crudeltà o un liberatore. Non era l'apparecchio fisso il telefono degli amanti: per questo esistevano le cabine, i gettoni, gli angoli discreti dei bar; e la vita delle persone procedeva così: vigilata in casa, ma senza la possibilità di controllarsi fuori ad ogni passo, di sapere da dove provenisse una chiamata: se dall'ufficio, da un albergo o da una strada.

Nella vita di un individuo una telefonata poteva essere un evento memorabile, legarsi inscindibilmente al ricordo di una gioia, di una sorpresa o di un dolore: un gesto istintivo o pensato con cura, studiato nelle parole e nei toni secondo la sua importanza. Spesso l'offerta di un lavoro ci raggiungeva al telefono fisso prima che con la lettera: per questo si stava fuori casa il minimo indispensabile nel timore di perderla. E se la chiamata di assunzione fosse arrivata mentre il coutente del duplex teneva occupata la nostra linea? L'avevamo detto mille volte a nostro padre: era meglio il simplex, che costava di più ma almeno era sempre a nostra disposizione. La facilità della comunicazione oggi ha reso banale e soffocante l'uso del telefono: parliamo ovunque e comunque, mentre guidiamo, mentre siamo in tram, mentre viviamo il nostro altrove. Le nostre tasche pulsano, vibrano, fischiano di appelli. Telefoniamo come una volta ascoltavamo in sottofondo la filodiffusione. Il canone bimestrale del vecchio simplex corrisponde più o meno alla spesa mensile di ciascun membro della famigliola media per il proprio cellulare. Un ultimo rimpianto al vecchio, inoffensivo apparecchio a muro: non era neppure cancerogeno.