di Valeria Amerano
Vi sono oggetti che diventano il prolungamento di una persona, oggetti che l’hanno tanto accompagnata e completata in vita da evocarne l’alone e la presenza dopo la morte.
Perso il loro possessore, essi restano soli, muti, pieni di memoria e vuoti di utilità, intangibili agli altri come strumenti che l’appartenenza abbia consacrato al maestro. Per mia madre, la comprimaria era la sua macchina per cucire. Negli ultimi tempi mi accadeva di guardarla, aperta sul suo tavolino di legno, la ruota a pedale, nulla di elettrico, Borletti anni Cinquanta, pagata a rate, verde oliva come una macchina da guerra; e come una macchina da guerra aveva lavorato. Ora non cuciva più, ma un fagottino di ritagli con le riparazioni iniziate e non portate a compimento, in attesa di un guizzo che mia madre novantenne pur tra gli sforzi non riusciva a ritrovare, rimaneva sotto la tovaglietta a punto croce che la copriva a creare un rigonfiamento mal celato: quel minimo disordine insomma che ha sempre fatto la nostra casa operosa tanto diversa dalle dimore inappuntabili dove non si trovava a terra né uno spillo né una gugliata di filo.
Mi spremeva il cuore vederla pensando al tempo in cui sarebbe diventata mia. Sapevo già che non avrei osato toccarla, vivevo l’assenza prima che questa incombesse sulla casa inanimata. Seguendo il mio sguardo la mamma ribadiva amara la sua stanchezza: “Devo sempre cambiare una lampo e accorciarti quei pantaloni beige. Non sono più buona a niente. E tu non hai imparato”. Vero: so fare solo cose inutili. Di casa in casa, in un’ondata mi assaliva il ricordo della sua giovinezza, la mia infanzia e i nonni, mio padre e la voce in sottofondo della macchina per cucire, il cui ago cantava scivolando nelle sete, masticava le lane, avanzava spedito nei cotoni mentre il lavoro procedeva alacre. “Chi viene oggi a provare?” domandava partecipe il nonno, occhieggiando dal corridoio sulla stanza da lavoro. “La commissaria”, rispondeva mia madre; oppure: “La vedova... la sposa...Madama Biroglio”. Il vestito intanto era già sul manichino, pronto per la prova, e nelle sue forme raffigurava precisamente la donna che l’avrebbe indossato: la lunghezza delle gambe, l’opulenza del seno, il punto vita, l’ampiezza dei fianchi, l’armonia delle giuste proporzioni.
A volte il manichino, esposto sul balcone con addosso l’abito finito e appena stirato, suscitava curiosità e procurava nuove clienti; come accadde per le operaie della fabbrica di fiale che si affacciava sul nostro cortile. Avendolo notato, erano venute a chiedere informazioni alla portinaia e salite a suonare al nostro campanello. (Oggi la fabbrica non esiste più; ristrutturato l’edificio, vi ha sede un centro medico dove torno ogni tanto a curarmi inutilmente l’artrite e a rivedere con nostalgia il primo balcone della mia vita).
I cappotti o le giacche, nelle fasi intermedie, rivelavano tutti gli accorgimenti (tasche interne, imbottiture, arricciature, tele di rinforzo), che alla fine di un lavoro ben fatto, nascosti sotto la fodera, non si scorgono più, ma che sono il segreto di un capo che cade a piombo dalle spalle, rimpolpa depressioni, pialla gibbosità, compone l’eleganza.
Avevano un loro dialogo, la macchina e mia madre, la complicità che lega l’artista al suo mezzo d’espressione. Se poi era riuscita a farle cucire feltro, pellame o finizioni coriacee, lei dopo le parlava, la ringraziava come si gratifica un cavallo che abbia portato il basto di un somaro. Capitava, a volte, che mangiasse il filo o saltasse il punto. Mia madre allora sbuffando e imprecando tra i denti la smontava, con cacciavite minuscoli svitava mascherine e si addentrava nelle sue cavità, estraeva spolette, districava nodi, in spazi di manovra da dentista cambiava l’ago. Con l’intelligenza, la tenacia e il perfezionismo che le avevano permesso d’imparare, senza scuole, a cucire per la famiglia e per gli altri, la rimetteva in quadro; e quando risentiva il passo giusto, la voce unica con cui doveva procedere: “Voglio un po’ vedere chi di noi due ha la testa più dura”, le assestava.
Mi siedo al posto vuoto. Non mi respinge, ma non sa che dirmi. Non so che dirle. Riconoscevo la sua voce, ma non parlo la sua lingua. So la sua storia, non so continuarla. Così, dopo aver perso le persone care, si perdono i mestieri, le abilità e quel tocco di magia che in un pezzo di stoffa vestiva una persona.
- Versione adatta alla stampa
- 4643 letture