Una deposizione

di Valeria Amerano

Continua la serie dei Racconti di Valeria. L'inventiva dell’autrice sta nel fare riemergere ricordi d'infanzia, frammenti di vita vissuta, impreziosendoli con accenti sinceri e commossi che ci dicono quanta inventiva, quanto spirito di osservazione, quanta proprietà linguistica, non disgiunta da una lieve nota umoristica, la nostra possegga (G. C.)

Avevamo lasciato corso Francia, un quartiere di case liberty per traslocare in periferia. Era il 1960. Ero una bambina di cinque anni. Il palazzo sorgeva nei prati come una specie di torre senza castello. Era la zona dello stadio Filadelfia. File ordinate di orti, bealere che irrigavano i campi, mucche che pascolavano, fossi, campi di calcio improvvisati, montagnole di detriti lasciate qua e là dai cantieri, bambini che si chiamavano dai palazzi prima di scendere sotto a giocare con la merenda in tasca.

Tutto intorno si allargava la cerchia dei monti presieduta dal Monviso alle cui spalle, la sera, fra guanciali di porpora, si coricava il sole. Il borgo che andava formandosi era composto in buona parte da piemontesi nati in provincia, essendo insediati nei casamenti più vecchi e prossimi alla piazza della chiesa gli immigrati che a poco a poco rimescolavano la penisola. La nostra vicina di casa, la signora Bianca, classe 1890, era nata a Torino e vissuta nel cuore antico della città, in via Carlo Alberto.

Figlia di una modista della casa reale e di un tenore di secondo piano, aveva gestito con la madre e le sorelle una pensione che era stata una scuola di vita oltreché una fonte di reddito e ora, dopo la vendita sofferta dei locali da sottoporre a costosi risanamenti e il conseguente trasferimento in periferia, era diventata la cassaforte dei suoi ricordi e il tocco naturale della sua distinzione. Con il cappello di velluto, il busto che le modellava la vita, gli abiti su misura, le mani sempre curate e uno sbuffo leggero di cipria sulle guance, la signora Bianca portava a spasso nella gentilezza, lo sguardo vivace e la parlata torinese pura uno stile d’altri tempi e d’altri luoghi. Perché, se è vero che intorno a piazza Castello poteva ancora trovare affinità e interlocutori, nel quartiere Santa Rita risultava in esilio.

Mio padre era un artista, sospirava, e lei era cresciuta sulle ginocchia di Tamagno. Rinnovellava con nostalgia, ma senza boria, le stagioni dei vari teatri lirici che avevano accolto il padre e intonava le arie dei melodrammi che conosceva a memoria. Ballerine, artisti, ragazze bruciate d’innocenza, studenti in medicina diventati poi celebri professori, perseguitati politici da nascondere, nobili andati in malora costituivano il fervido e colorato mondo che brillava negli occhi della signora Bianca quando apriva il libro dei suoi ricordi di affittacamere. Il suo alloggio era arredato di vecchi mobili di famiglia, e sul letto di noce campeggiava una Deposizione con cui un nobile decaduto aveva pagato negli anni Trenta il suo soggiorno alla pensione.

L’opera, lunga quanto la testiera, presentava un certo numero di figure vividamente ammantate, una scala di traverso, il Cristo livido deposto fra Maddalene e Madonne genuflesse e una prevalenza nell’insieme di verde acido. Non ricordo purtroppo il nome del pittore minore che l’aveva dipinta, ma so che la signora Bianca e il marito, pittore di nature morte a sua volta, lo stimavano di buon livello. La cornice era imponente, di legno massiccio, con fregi ben rilevati. Presto la signora rimase vedova nella casa nuova, affacciata sull’amato Monviso. Il marito Giacomo, più giovane di lei, morì banalmente per la generosità di voler sbrigare (senza compenso) una commissione che l’amministratore di condominio quel giorno aveva troppi impegni per sbrigare lui.

Un’auto gli tagliò la strada mentre col suo Motom andava a ritirare il preventivo di una ditta di combustibili, e cadendo dal motorino il signor Giacomo urtò irreparabilmente la testa sul marciapiede. Da quel momento la signora ci lasciò una copia delle chiavi del suo appartamento: per qualunque evenienza, dal restare chiusa fuori ad un eventuale malore, prima di disturbare il figlio e la nuora avrebbe preferito, se fossimo d’accordo, rivolgersi a noi. I nostri rapporti erano di fiducia, affetto e solidarietà reciproca, per cui fummo onorati della sua decisione. Condividevamo tutto: il medico di famiglia, le novità, i miei voti a scuola, i pettegolezzi del condominio, un abito nuovo, delusioni e amarezze familiari. Ebbe prima di noi il televisore e il telefono, e spesso m’invitava a vedere i programmi da lei; potevamo ricevere o chiamare da casa sua per ragioni serie, pagandole la telefonata. Quando aveva bisogno di noi, la signora sfiorava appena il campanello e poi con le unghiette corte bussava alla nostra porta in un gesto discreto che già preludeva al colloquio confidenziale. “Sentite un po’ cos’è venuto a dirmi il mio nipotino mentre mi arrampico sulla scaletta per agganciare la mantovana” esordì un giorno, piccata ma in fondo non troppo stupita. “Gli faccio: la nonna deve stare attenta ché se cade di qui si ammazza. E lui, fregandosi le manine: Che bello!

Così mio papà prende i fitti… Ora ditemi: vi sembra che un bambino di sei anni, ingenuo com’è, possa tirarmi fuori un argomento come questo?... Dovrò dire a mio figlio e a mia nuora di farli tra loro, certi discorsi, quando la creatura non sente”.
Il medico di famiglia, un personaggio anche lui prossimo al tramonto, non tanto per l’età quanto per il suo sentire lontano dall’arrivismo che lo rendeva poco conforme ai tempi che si preparavano, ascoltava con divertito interesse la ricca aneddotica cui la signora Bianca poteva attingere dal proprio passato. Era convinto che il paziente andasse spiato nell’anima e conosciuto nella sua interezza prima di curare un fegato. Così si lasciava condurre sul terrazzino dalla signora Bianca ad ammirare il rigoglio delle sue piante. Il papiro, le sansevierie, l’aspidistra, i gerani, la dracena… Erano in salute sì, ma avrebbero avuto bisogno anche loro, una volta l’anno, di un ricostituente, si lamentò un giorno la signora.

Ci sarebbero volute, disse abbassando la voce per rispetto, delle berle d’caval o d’aso1, ma in città ormai… Il medico rise: in Val Varaita, dove aveva la casetta prefabbricata, non si trovava altro! Se era solo di questo che avevano bisogno le sue piante, avrebbe pensato lui a procurargliene. E un lunedì mattina il medico se ne arrivò a casa della signora Bianca con le berle d’caval e d’aso dentro un secchio di latta.

Una notte fummo svegliati da uno strano tramestio e da un lamento in dialetto che proveniva dalla camera della nostra vicina: “Ah, che mal! Che mal…”. Mio padre balzò dal letto e si precipitò a bussare alla parete: “Madama Bianca… A sta nen ben?”. Prima di introdursi in casa sua con le chiavi era meglio accertarsi che non si trattasse solo di un brutto sogno. “No, ‘l quader…’l quader! A l’è destacasse la Deposission… a l’è vnume sla testa”. Ci alzammo tutti e tre per andare a soccorrerla. Sulla porta mio padre m’intimò: “Non ridere”. E io fui brava a obbedire, ma vedevo bene sulla faccia dei miei che appena ritornati a casa qualche smagliatura sarebbe scappata. Non sanguinava, se la cavò con la borsa del ghiaccio e una pomata. Davvero non ricordo il nome del pittore. Ma a giudicare dai segni sulla fronte della signora Bianca, la mattina dopo, posso ritenere che doveva trattarsi di un’opera di peso...