di Valeria Amerano
“An apple a day keeps the doctor away” saluto al telefono il mio amico Luciano Rosboch, dopo avergli aggiornato il bollettino dei miei reumatismi. E lui di rimando: “The bigger the apple, the better you feel”.
Questa frase in apparenza banale, insieme ad altre consorelle di un indimenticabile repertorio, non indica soltanto un ping pong più o meno fatuo di proverbi anglosassoni, ma il ricordo comune di due studenti adulti (già collocati nel mondo del lavoro) irretiti, intrappolati, nei lontani anni 80, in un metodo di studio tanto severo, provato, mnemonico e, per certi versi, assurdo da risultare affascinante per i risultati che era in grado di garantire.
Arrancando, ripetendo, riscrivendo, riascoltando fino alla nausea le audiocassette in dotazione all’Istituto, s’imparava l’Inglese. By heart (a memoria), siamo d’accordo. Il che faceva mollare fin dalle prime lezioni le menti troppo elastiche, i parlatori abituati a barcamenarsi branca pì branca meno (piemontese purissimo, questo, visto che mi sono tuffata nelle lingue e il Piemontese nel suo piccolo lo è anch'esso), a insaponare di comunque, cioè, suppergiù, voglio dire, per tradurre infine alla Sordi candidato a vigile metropolitano. Niente da fare. All’Istituto dell’ombrellino, ai piedi del monumento a Vittorio Emanuele, la grammatica e la fonetica erano cose serie e non intercambiabili. Con tre errori di traduzione o di pronuncia o di risposta alle domande orali non si procedeva all’unità successiva. L’insegnante promuoveva solo dopo aver verificato con un esercizio scritto e due orali l’acquisizione di tutte le difficoltà presentate nella lezione. Le lezioni erano venticinque per ogni corso alla fine del quale ciascuno era approdato al numero di unità realmente superato.
A stabilire se lo studente fosse in grado di procedere, ogni cinque lezioni veniva sottoposto al temutissimo Lex, un esame di livello effettuato con le cuffie, un foglio e una biro. Nessun vocabolario né marchingegno per copiare. Non ce ne sarebbe stato il tempo. Lo studente prendeva posto dietro un vetro, una specie di cabina multipla del Rischiatutto dove ciascuno riceveva dalle proprie cuffie le consegne di un’audiocassetta diversa da quella toccata agli altri. Trenta frasi dettate in Inglese, trenta frasi in Italiano da tradurre in Inglese (contenenti le proprietà grammaticali imparate nelle ultime cinque lezioni) e infine l’esame di comprensione orale. Dieci domande aperte con quattro risposte a scelta di cui una sola, ovviamente, esatta. Le frasi imparate a memoria costituivano il modello con le regole da applicare in situazioni analoghe. Il nastro dell’audiocassetta non poteva essere fermato, non tornava indietro sulla parola non capita, non dava la possibilità di riascoltare o di inseguire la proposizione oscura. Andava avanti, lui, e, per non perdere tutto il resto, occorreva passare oltre e non accanirsi sul concetto dubbio.
Era un esame ansiogeno che richiedeva la sufficienza in tutte e tre le prove: dettato, traduzione e comprensione orale. I voti riportati non facevano media. Due voti brillanti in traduzione e dettato non bastavano a rimediare l’insufficienza nella comprensione orale. Di solito i gruppi erano formati da sei studenti, a volte del tutto eterogenei. Il mio comprendeva una maestra elementare (la sottoscritta), tre liceali di differenti istituti, un impiegato bancario, un’anziana signora di Borgo Po che sperava di sorprendere con qualche espressione anglosassone il figlio trasferito in Irlanda. Quando entrava l’insegnante (rigorosamente di madre lingua) con i pagellini dei Lex il nostro stomaco si chiudeva a pugno. Il timore di una retrocessione era reale e plausibile, e dover ripetere cinque lezioni era un peccato oltreché un intralcio al completamento del programma annuale.
I fogli della prova erano lì, con i nostri errori visibili, evidenziati, inoppugnabili. Ma se tutto era stato superato, era una soddisfazione veder premiata con un passo avanti la fatica. Avere la percezione d’imparare, di non girare a vuoto, di lasciarsi alle spalle un ostacolo per incontrarne di nuovi: questo dava il senso allo studio e motivava la volontà di mettersi alla prova.
Nella mezz’ora di conversazione l’insegnante ci rivolgeva domande intorno a un argomento o ci mostrava foto di luoghi e persone che avremmo dovuto descrivere. Un giorno fece circolare fra noi la fotografia di alcune signore mature molto animate intorno a un tavolo apparecchiato per il tè. Avevano l’aria di conoscersi da molto tempo. L’insegnante disse: forse erano state compagne di scuola. Se fosse così, cosa si stanno dicendo, secondo voi?... I ragazzi restarono un attimo perplessi. Sentii di poter rispondere: “Do you remember...?” L’insegnante sorrise e annuì.
“Ti ricordi?”. È proprio quello che adesso ci domandiamo Luciano ed io ripensando con nostalgia alla scuola dell’ombrellino. Purtroppo molto si perde di una lingua, con gli anni, quando non la si esercita continuamente. Ma le situazioni e le espressioni imparate in quei corsi e i personaggi ricorrenti - da Mrs. Mable a Mr. Taylor ad aunt Mary con le loro mirabolanti avventure - ci legano come gli appartenenti ad una società segreta, gli iniziati di una setta. Le ultime tecnologie hanno travolto e spazzato le audiocassette, cambiato metodi e scuole diventate obsolete. Ma noi continuiamo a sostenere con simpatia e gratitudine il vecchio istituto dell’ombrellino, il suo rigore e le sue formule mnemoniche “out of date” che al momento buono, però, tornano utili come un salvagente.
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