Nell’anno 1713, il Duca di Savoia Vittorio Amedeo II raccolse i frutti della vittoriosa partecipazione alla guerra di successione spagnola ed ottenne il titolo di Re di Sicilia. Il 3 ottobre 1713, con la moglie, salpò da Nizza sulla nave inglese Blenheim comandata dall’Ammiraglio Jennings e otto giorni dopo giunse a Palermo. I cinquemila soldati che aveva portato con sé diedero il cambio alle milizie spagnole che presidiavano la città.
Vittorio Amedeo dimostrò immediatamente il suo interesse per la Sicilia promuovendo delle riforme. La sua ben nota parsimonia colpì un’amministrazione abituata agli sperperi spagnoli: cariche inutili furono soppresse e molte spese vennero drasticamente ridotte o abolite. Si creò così, tra nobili e funzionari, un malcontento alimentato anche dalla forte preoccupazione che il Re non potesse continuare a soggiornare nell’isola, al centro di enormi interessi internazionali. Infatti, il 29 dicembre 1718, l’isola fu scambiata con la Sardegna e Vittorio Amedeo II prese concretamente possesso del nuovo territorio il 2 settembre 1720.
Durante il soggiorno siciliano, Vittorio Amedeo II aveva avuto l’occasione di conoscere un religioso piuttosto pingue, dal carattere allegro, dotato di un raro talento nel disegno e nella progettazione architettonica: Filippo Juvarra. L’uomo che tanta parte avrebbe avuto nelle realizzazioni architettoniche di Torino, in piena rinascita dopo la vittoria sui gallo-ispani, nacque a Messina il 27 marzo 1678 da Pietro e da Eleonora Tafuris e fu battezzato, il giorno successivo, nella chiesa parrocchiale di San Giuliano.
La famiglia Juvarra, da lungo tempo residente in Sicilia, era di origine spagnola. Gli avi si erano dedicati al mestiere di tintori, ma Pietro, operando con due fratelli, divenne un abilissimo argentiere. Lo stesso Filippo iniziò ad interessarsi all’arte in cui eccelleva il padre, ma fu avviato agli studi religiosi e ordinato sacerdote a venticinque anni. Tuttavia, mentre si occupava di religione, cominciò a studiare i trattati di architettura di Vitruvio, del Vignola, di padre Pozzo e di altri valenti autori. Compiuti ulteriori studi con gli architetti Carlo e Francesco Fontana, ebbe richieste di progetti che lo portarono in diverse città e, nel 1708, si affermò a Roma entrando al servizio del Cardinale Pietro Ottoboni, come architetto e come scenografo per il teatrino che il porporato aveva allestito nel palazzo della Cancelleria.
Pervaso da una febbre creativa multiforme, Juvarra si recò a Lucca ed a Firenze e, nel 1714, si pose al servizio di Vittorio Amedeo II. A strapparlo delicatamente da Roma e dall’Ottoboni, fu un consigliere del Re di Sicilia, il giureconsulto Domenico D’Aguirre.
L’incontro tra il Sovrano e l’abate, ormai famoso, è narrato dall’anonimo autore della Vita del cavaliere Filippo Juvarra: «appena vedutolo [il Re] gli domandò che disegni avesse portati; ed egli rispose che aveva portato il toccalapis ed il tiralinee, volendo con ciò dire che gli avrebbe dato l'animo di fare qualunque disegno gli fosse stato ordinato». Il Sovrano «lo condusse seco in Torino» e gli assegnò una gratifica di mille lire.
Juvarra esordì con il progetto della Basilica di Superga e dell’annesso convento, poi seguì i cantieri alla Reggia di Venaria Reale. In Torino, si occupò della ricostruzione della chiesa di San Filippo Neri e del disegno della facciata di Santa Cristina. Nel 1718 si dedicò ai progetti della facciata e dello scalone del Palazzo Madama. La splendida realizzazione dell’avancorpo barocco, applicato alla fronte occidentale dell’antico castello degli Acaja, fu solo l’inizio di un più ampio progetto non eseguito, che prevedeva la costruzione di due grandiose ali laterali ed il proseguimento dello stesso modulo costruttivo sugli altri lati del palazzo.
Sempre nel 1718, Juvarra iniziò ad interessarsi del castello di Rivoli, ma i lavori si arrestarono intorno al 1725 ed attualmente il castello, restaurato ed in parte occupato dal Museo d’Arte Contemporanea, si presenta incompleto. Eretta la famosa «Scala delle forbici» per il Palazzo Reale di Torino, fu incaricato di progettare il coronamento del campanile del duomo. La guglia da lui disegnata non fu mai posta sulla nuova cella campanaria e la torre assunse l’aspetto tronco che tuttora la contraddistingue.
Filippo Juvarra si distinse nell’urbanizzazione del terzo ingrandimento cittadino, il cui asse rettore era la Contrada del Carmine, che iniziava dall’attuale Piazza Savoia per concludersi, a ponente, verso la Porta Susina. Qui Juvarra pose quelle che furono definite le più eleganti caserme d’Europa: i quartieri militari di San Celso e di San Daniele e, lungo via del Carmine, eresse l’omonima chiesa.
Incurante degli anni che passavano, l’abate continuò una produzione ricchissima passando dalla splendida palazzina di caccia di Stupinigi, all’austero disegno della manica settentrionale del Palazzo Reale e firmando un elegante e funzionale progetto per gli Archivi, le Segreterie ed il Teatro, in piazza Castello. Poté condurre personalmente solo la costruzione degli Archivi, mentre gli altri due edifici vennero realizzati da Benedetto Alfieri.
Il rigido clima piemontese portava, ogni inverno, alla chiusura dei cantieri e Filippo Juvarra approfittava dei periodi d’inattività costruttiva per recarsi in varie città italiane ed estere lasciando ovunque tracce della sua abilità a della sua inventiva. Nel 1735 si recò a Madrid per ricostruire il palazzo reale della città spagnola e lì, purtroppo, il 31 gennaio 1736 trapassò prematuramente dopo alcuni giorni di malattia.
Il grave malanno ebbe inizio per una circostanza banale e sfortunata. Dopo un’intensa giornata di lavoro in cantiere, l’architetto non fu raggiunto dalla carrozza che doveva accompagnarlo a casa e percorse la strada a piedi, sudando parecchio. Il freddo della sua camera, priva di caminetto, gli causò l’attacco di febbre dal quale non si sarebbe più ripreso.
In Torino, la sua memoria vive nelle numerose realizzazioni che resero artisticamente più importante la fiorente capitale del regno sabaudo, mantenuta indipendente dall’ingerenza straniera grazie alla strenua resistenza dei militari e dei civili durante l’assedio del 1706.
Piergiuseppe Menietti
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