Mio padre

di Valeria Amerano

Non so chi avesse educato il naso a mio padre. A pensarci bene nessuno in famiglia aveva un olfatto così selettivo e sensibile: una specie di arma impropria che lo aiutava a penetrare meglio la natura delle persone, le peculiarità dei luoghi, la storia segreta delle case.

Non che avesse un naso particolarmente sviluppato, un peperone che giustificasse con le dimensioni la sua sensibilità, ma era uno strumento capace di evocare in lui atmosfere trascorse, di disporlo alla vivacità o alla tristezza, al piacere sottile o alla ripugnanza. Buona o cattiva, questa eredità me l'ha lasciata tutta, e ora mi capita di sorridere quanto mi sento oppressa o carezzata da un aroma. I suoi racconti si snodavano- quando non si formavano addirittura- intorno al ricordo di un odore a definire il quale mio padre cercava, come tra le mille carabattole di una vecchia soffitta, i paragoni più consoni che mi stupivano e divertivano. C'erano vecchie parenti che non poteva visitare senza imporsi sulla soglia di casa una specie di anestesia; lo guardavo rispondere pensando ad altro, concentrato nell'annullamento della percezione stridente e aspra, il respiro breve e le pinne nasali vibranti come le branchie di un pesce in agonia. Se le vecchie parenti erano le sue non rinunciava ad aprire una finestra anche per pochi minuti, con la sollecitudine di un benefattore preoccupato del cambio dell'aria e pronto a richiudere alla prima protesta: "Hai così caldo, Giuseppe?!...".

Mi spiegava come in gioventù il piacere del ballo potesse essere guastato da un afrore o da un profumo troppo aggressivo. Sosteneva ci fossero persone che puzzavano di naso. Non volevo credergli: mi sembrava un'esagerazione. Restai di sasso quando, frequentando un corso di igiene, venni a sapere da un celebre otorinolaringoiatra che esisteva una malattia, l'ozena, responsabile di croste purulente nel naso, a causa della quale era concesso l'annullamento del matrimonio. Papà gongolò di soddisfazione, quel giorno: non solo il primario gli aveva dato ragione, ma ora sapeva anche il nome di quella che lui, senza laurea, aveva sempre diagnosticato come una malattia seria. A causa di questa ipersensibilità egli fu spesso la persona sbagliata nel posto sbagliato.

Mia madre cuciva, e questo la portava a frequentare negozi di tessuti e mercerie. Con Elda, una carissima amica di giovinezza, valente sarta anche lei, aveva scoperto una bottega a dir poco singolare per assetto, qualità della merce, modalità di vendita e tipologia del titolare. Dalle sue polverose vetrine affacciate sul corso Racconigi, il signor Giovanni, anziano rappresentante di una famiglia di mercanti di stoffe e pellicciai, guardava con ostilità e sarcasmo piemontesi il sorgere dei primi "punti di vendita", incrollabile nelle sue consuetudini, totalmente ignaro di cortesia mercantile, forte del valore dei suoi tessuti -che vendeva in scampoli o a peso. Lane di Biella, sete di Como, lane pettinate e cardate, mussole, popeline e cotoni perlé arrivavano ogni martedì su un camioncino che Giovanni non aveva tempo di scaricare. I sarti di Torino che lo attendevano impazienti sul marciapiede lo prendevano d'assalto salendo liberamente all'interno del veicolo a scegliere e ad assicurarsi per primi i tagli migliori. In ultimo passavano in negozio a pesare e pagare. Era così conveniente che nessuno chiedeva il prezzo prima di accaparrarsi le stoffe. Giovanni, con un grappoletto di cisti sulla guancia, viveva e vendeva da solo; incurante di ogni forma, accoglieva la clientela in abiti sbrodolati, i pantaloni retti da uno spago, la fida cagna Lupa che orinava lungo il bancone, e un armadio a muro adibito a gabinetto per lui, senza finestre e a volte spalancato in mezzo agli scaffali. Mio padre, due volte colpito dall'aspetto dell'uomo e dall'aria intensamente ammorbata, tornò stordito come da un baraccone degli orrori: "È una cosa incredibile... Mi bruciavano gli occhi. Eppure tu vedessi la gente elegante che frequenta quel posto!". Perché la stoffa era bella, come non se ne trovava più in giro a quel prezzo, e perciò Elda e la mamma tornavano spesso in quell'emporio che sfidava con la sua resistenza il sopravvento del "look". Qualche volta a mio padre toccava accompagnarle in auto. Quando poi la sera domandavo: "Che avete fatto di bello oggi?", lui rispondeva: "Siamo usciti con Elda. Le ho portate alle profumerie di Grasse... Ma io sono rimasto fuori".