Didattica della Storia nella Scuola Primaria

di Lia Ferrero

Fine classe prima o inizio seconda

RICHIAMARE IL TEMPO

Il bambino di 6/7 anni (vedi numero precedente, “Tempo vissuto, tempo pensato”) si fa pensieroso quando scopre che il tempo è una forza che avanza e non si arresta, che genera e consuma, che fa crescere e fa invecchiare e che esiste un solo modo per farlo tornare indietro: richiamarlo con il ricordo.

Ricordare significa in qualche modo far rivivere e il recupero della memoria degli eventi del primo arco temporale dell’infanzia rappresenta il primo germe del concetto di storia.

Si tratta di una storia viva, corposa, palpitante, fatta di spezzoni di ricordi brevi e fugaci, non di rado ingigantiti e deformati dall’emotività, tendenti a mettere in luce episodi e aspetti sovente non essenziali e soprattutto incapaci di risalire al primo scorcio di vita. Nasce da qui la necessità che i ricordi vengano integrati dalle testimonianze di coloro che hanno seguito il piccolo nelle prime fasi della sua crescita e che ricordi e testimonianze siano, quando necessario, avvalorati da oggetti che fungano da documenti di fatti, di eventi, di incontri, di conoscenze, di scoperte.

Per questi motivi il compito di un insegnante, al termine della classe prima o agli inizi della seconda, in relazione al tempo a disposizione e alla maturità della classe, dovrebbe poter consistere prevalentemente nell’orientare i singoli soggetti a ricavare dai ricordi, dalle testimonianze e dai documenti un’intuizione basilare: la crescita di ciascuno consiste in un susseguirsi di azioni e di comportamenti che si collocano in una linea di continuità evolutiva e che fanno intravvedere una serie di costanti di maturazione comuni ai singoli percorsi di vita.

Sulla base dell’intreccio tra ricordi, testimonianze, documenti, sarebbe dunque possibile tracciare a grandi linee quello che potremmo proporre come programma relativo al primo biennio della scuola primaria: dalla elementare, sommaria e frammentaria ricostruzione dell’infanzia propria a quella dei genitori e, nell’ordine, dei nonni e dei bisnonni. Il tutto alla scoperta di modi di vivere che abbracciano l’ambito domestico, quello scolastico, quello lavorativo, quello di ambiente e di costume.

Scenari di crescita: come giocavamo?

La percezione della propria crescita deriva al bambino dalla constatazione che, con il passare del tempo, gli indumenti gli vanno stretti, certi cibi acquistano o perdono sapore, i giochi che riesce ad eseguire si moltiplicano e si arricchiscono, la cerchia degli amici si allarga, le curiosità aumentano, la voglia di scoprire si fa più acuta.

Proprio sulla base di queste percezioni episodiche e frammentarie l’insegnante può avviare le prime riflessioni, ricorrendo a tutta una serie di attività ludiche, espressive, di drammatizzazione, di discussione in classe, mirate ad una prima elementare analisi delle caratteristiche comuni dell’evoluzione del gioco, del linguaggio parlato e di quello iconico.

In relazione al gioco non possiamo che abbozzare, per brevità di spazio, qualche proposta di attività ludico - simbolica tra le molte possibili (commessi di magazzino che consigliano ai clienti giocattoli appropriati a determinate età, adulti che regalano a vanvera giocattoli inadatti in rapporto all’età dei bambini a cui sono rivolti…). Un primo spunto di riflessione può riguardare in effetti l’età alla quale un certo gioco si adatta e si attaglia.

A questo proposito l’insegnante può invitare gli allievi a portare a scuola i giocattoli di quando erano piccoli. Gli spazi liberi dell’aula si riempiranno di palloni, puzzle, elementi da costruzione, barbies, peluches, domino, dinosauri, giochi elettronici… La consegna può consistere nel collocare in serie secondo un criterio temporale tutti questi giocattoli, a partire da quelli dei primi mesi di vita fino a quelli che vengono usati al presente. Ne verrà fuori all’inizio una pittoresca confusione, originata dal fatto che i tenui e labili ricordi si confondono e si sovrappongono, che le testimonianze degli adulti interpellati non concordano fra loro, che le fasi di maturazione ludica sono più o meno precoci in soggetti diversi, che anche in uno stesso soggetto le fasi di evoluzione rapida si alternano ad altre di sostanziale stagnazione.

Ma dalle discussioni incomincerà a emergere un abbozzo di criterio di collocazione nel tempo. I bambini si renderanno conto che i grandi cubi di plastica colorata sono stati usati verosimilmente prima degli incastri di lego e che i puzzle a grandi tessere hanno preceduto quelli a tessere piccole e meno definibili nell’insieme e nei dettagli. Constateranno che la palla e il pallone divertono in forme e modalità diverse i bambini di ogni età, a prescindere dal fatto che siano maschi o femmine, anche se il gioco del calcio giocato attira di norma più i maschietti. Capiranno che l’interesse per il mondo dei dinosauri o dei razzi lunari si sviluppa non prima che l’abbondante produzione multimediale lo susciti. Scopriranno che i giochi di competizione possono essere praticati solo quando si amplia la cerchia degli amici e si diventa capaci di formare dei gruppi per quanto possibile omogenei. Rifletteranno inoltre sul fatto che i giochi di ruolo (l’insegnante, il medico, l’esploratore…) vanno di pari passo con l’emergere di interessi e di competenze elementari riguardanti i compiti svolti dalle singole figure professionali.
Una considerazione che emerge in generale dalla pratica del brain-storming può riguardare la capacità di comprendere come il gioco sia interessante di per sé e non solo in relazione alla natura del giocattolo, il quale diventa, per esigenze di mercato, sempre più sofisticato e ricco di dettagli tecnici, tanto da limitare via via gli spazi della creatività.

Può essere utile a questo punto invitare i bambini a prendere in considerazione, ad esempio, un gioco simbolico molto comune, quello delle biglie. La pista tracciata nella sabbia, nella terra o nella ghiaia è un grande circuito internazionale; le biglie di plastica sono le monoposto Ferrari, Mercedes, Red Bull; ogni concorrente si sente nei panni di Alonso, Hamilton, Vettel. Occorre precisione di tiro, capacità di dominare le asperità del terreno, ma occorre soprattutto l’impegno a non derogare da determinate regole. Basta improvvisare il gioco nell’arenile della scuola: se i giocatori scoprono che qualcuno ha barato, urlano, si scalmanano, diventano punitivi e intolleranti con il reo, fino a bandirlo dal gioco con il massimo dell’infamia: la regola è sacra, non convenzionale, non trattabile, non derogabile.

Il bambino scopre in questo senso che ogni gioco ha le proprie regole: ad esempio il gioco a nascondino perde il suo fascino se alcuni partecipanti non le rispettano: se chi sta sotto cerca di sbirciare dove si nascondono i compagni o se, nella conta, salta i numeri dal 20 al 30; se chi si nasconde cerca rifugi “proibiti” al di fuori dell’area concordata.

A quale età, in quali circostanze si rende necessario e imprescindibile il rispetto delle regole? Da parte loro queste sono immutabili o possono essere modificate di volta in volta con il consenso di tutti o quanto meno della maggioranza? La flessibilità delle regole è segno indubbio di maturità generale e non si presta unicamente a rendere il gioco più funzionale.

Come abbiamo imparato a parlare?

Dal brain-storming emerge che nessuno dei bambini è in grado di ricordare quando, nei primi mesi di vita, si esprimeva con il pianto: occorre a questo scopo riportare le testimonianze di chi si prendeva cura di lui: la mamma, la nonna, la tata. “Piangevo quando avevo fame…, quando volevo esser tirato su dal lettino…, quando ero bagnato di pipì…, quando avevo bisogno di coccole…, quando la mamma andava al lavoro e io avevo paura di perderla…”. Le testimonianze concordano anche quando emerge dalla discussione che i primi ghe ghe o da da, verso i cinque-sei mesi, erano un evento storico che i familiari descrivevano con dovizia di particolari a tutta la cerchia dei parenti e dei conoscenti e che riprendevano con i mezzi tecnici allora a disposizione. Chi possiede dei reperti di questo genere viene invitato a portarli a scuola.

A questo punto diventa determinante l’azione orientativa dell’insegnante, soprattutto quando è importante fare scoprire il significato della parola-perno. Quest’ultima si carica dei significati più disparati quando viene pronunciata da sola. La parola pappa, pronunciata in generale con timbro perentorio, può significare “ho fame”, ma può anche esprimere un rifiuto quando viene associata alla parola pu: la parola-perno dell’espressione diventa a questo punto “pu”. “Pu pappa” può significare “Basta così…, non ne ho più voglia…, questa brodaglia mi è venuta a noia…”

Il bambino deve poter capire che la frase si costruisce a poco a poco e si sviluppa in forma differenziata anche a seconda degli atteggiamenti adottati dagli adulti nei suoi confronti, in particolare l’abitudine a dialogare con lui e ad accompagnare l’azione in contesti significativi. Il linguaggio ha inoltre maggiore possibilità di svilupparsi e di arricchirsi quando la cerchia dei coetanei si amplia o quando la frequenza della scuola dell’infanzia è precoce e costruttiva.

“Se in questa classe, osserva l’insegnante, non avessimo l’abitudine di dialogare e di scambiarci le idee, pensate che il vostro linguaggio si svilupperebbe e si arricchirebbe? Nelle scuole frequentate dai vostri bisnonni, quando le classi erano numerose ed era forte la necessità di insegnare il più presto possibile a leggere e a scrivere, era possibile esercitare il linguaggio come facciamo noi?”

Il linguaggio del disegno

Come è noto, il disegno è l’espressione forse più genuina del livello di maturazione del bambino, ma anche dei tratti caratteristici della sua personalità, della sua emotività, del suo rapporto con gli altri, del modo in cui percepisce e vive il suo ambiente.

L’insegnante non deve certo pensare di avviare i bambini a un processo di analisi contenutistica ed estetica dei loro elaborati; molto più semplicemente deve portarli a comprendere che i loro disegni sono documenti autentici delle loro tappe di maturazione espressiva.

A questo scopo l’invito ai bambini può consistere nel portare in classe un campionario di disegni, a partire da quelli dei primi anni di vita fino a quelli prodotti negli anni della scuola dell’infanzia e a quelli attuali: non sarà loro difficile, considerato che in generale la mamma arriva ad appenderli alle pareti del posto di lavoro e i nonni li incorniciano o li raccolgono sistematicamente in un album.

In questa congerie pittoresca l’insegnante proporrà innanzitutto di suddividere i disegni in grandi categorie: la figura umana, la casa, il paesaggio e così via.

Il concetto di “storia” del disegno infantile fino ai sette anni circa emergerà a poco a poco da un primo tentativo di collocazione sulla linea del tempo della produzione di un singolo soggetto; solo successivamente potrà essere avviata in classe una serie di confronti fra disegni di coetanei, allo scopo di mettere in luce analogie e costanti di maturazione di schemi e di stili.

Ecco alcune constatazioni che i bambini potranno essere guidati a fare al termine di una classe prima o all’inizio di una seconda.

La figura umana compare in generale prima di altri soggetti pittorici e si compone degli elementi essenziali: la testa grande e sproporzionata rispetto al resto del corpo; al suo interno l’assenza di alcuni “dettagli” come la bocca o il naso; le gambe, ridotte a due linee rette che partono dal collo; l’abito femminile rappresentato da un triangolo; le braccia, anch’esse scheletriche e le mani a 3,4,6 dita. Alla domanda dell’insegnante sul perché di tale improbabile numero, i bambini rispondono facilmente che allora non sapevano ancora contare…

La casa, verso i 5/6 anni, viene rappresentata in vari casi in trasparenza, come se i muri esterni fossero di vetro e lasciassero intravvedere i vari ambienti e le persone intente alle loro occupazioni quotidiane. “Perché disegnavate la casa come se le pareti fossero trasparenti?” - Se no, come facevamo a far vedere quello che succedeva dentro?-

In sintesi

:: La prima storia non può che essere quella che coinvolge direttamente il bambino e che gli consente di ripensare alcune tappe e modalità significative della sua crescita.
:: I mezzi che gli consentono di “richiamare” il suo breve passato sono il ricordo, la testimonianza, il documento.
:: Attraverso gli spazi concessi alle esperienze di ricerca, al brain-storming e ad una più distesa e sistematica discussione in classe l’insegnante lo porta a scoprire la successione di determinate caratteristiche delle sue più significative tappe di crescita: il gioco, l’espressione verbale e quella pittorico-plastica.
:: In ogni caso la caratteristica più significativa della prima storia consiste per il bambino non soltanto nel prendere atto della successione temporale delle proprie capacità e delle proprie conquiste, ma nel rendersi conto che i percorsi di crescita suoi e dei compagni rivelano caratteristiche a grandi linee comuni, malgrado le specificità degli stili personali e dell’influenza dei vari ambienti di appartenenza.