Paesaggio sotto la neve

di Valeria Amerano

Lo aveva comprato perché costava poco, non era brutto e aveva una buona cornice: di legno scuro, lineare, non scheggiata. Lo aveva visto già due mesi prima e aveva aspettato che il prezzo si abbassasse o, se nel frattempo lo avessero comprato altri, che facesse il destino. Era appoggiato a terra, fra altri quadri, dove il rigattiere, perse le speranze di venderlo, lo aveva buttato con un prezzo che non pagava nemmeno più il disturbo di tenerlo ad ammuffire nel sottoscala, in mezzo alla polvere e agli odori umani di mobili e vestiti invecchiati con gli uomini.

La litografia in bianco e nero, numerata e firmata dall’autore, era cupa nei colori, terrifica nel soggetto: un’isola tonda come una torta di pietra emergeva da acque nere (o si inabissava?), circondata da una scala a vite che conduceva ad un piano di undici case, strette fra loro in un abbraccio fraterno e disperato di naufraghi, le luci tutte accese, i tetti innevati, una lenta processione di figure verso la chiesa illuminata per una messa notturna, forse di Natale. Fuori della cinta due platani spogli, i rami aperti come dita protese in un’offerta supplice, sembravano sostenere l’isola o minacciare di trascinarla a fondo come temibili divinità naturali da propiziare con l’omaggio e la preghiera. Il corniciaio aveva commesso un errore nella misura dello sfondo avorio su cui spiccava l’immagine, lasciando un centimetro di bianco in più sul lato sinistro: un’imprecisione evidente che guastava il piacere della simmetria. Fu per correggere questo difetto e per ripulire il vetro dall’interno che Barbara si decise a staccare con un coltello la carta tesa dietro il quadro dall’artigiano, e ad aprirlo. All’apparire di una busta chiusa, trattenuta da un chiodino, ritrasse istintivamente le mani al petto come in presenza di un animale inatteso e sgradito, uno scarafaggio o un ragno annidato in qualcosa che riteneva sicuro da sorprese, inanimato e ormai suo. Ma un oggetto che viene da un’altra casa non è mai senza memoria. La curiosità prevalse sul fastidio: Barbara tagliò la busta e ne sfilò uno scritto in inchiostro verde che cominciò a leggere col disagio di chi sa d’introdursi in un segreto.

“Cara Renza, sapevo che non avresti sopportato a lungo la disparità dello sfondo, tu così razionale, equilibrata e giusta, perciò pregai il corniciaio di sbagliare le misure e di nascondere questa lettera nell’ultimo quadro che ti avrei regalato prima di morire. Sono stato un cattivo marito rannicchiato in un buon matrimonio. Il pozzo del silenzio inghiottiva ogni minimo disappunto; la nostra buona educazione, il rispetto reciproco e un affetto premuroso e fraterno, come fossimo nati dalla stessa famiglia, ci legavano indissolubilmente rendendo la nostra unione esemplare e quasi invidiabile agli altri. Ma io ti ho tradita, Renza. Anzi, poiché il misfatto si è ripetuto nel tempo e sempre con la stessa persona: io ti tradivo. Ricordi quei viaggi a Milano cui la ditta mi obbligava ogni tanto per trattare con i fornitori? Non mi sono mai mosso da Torino. Incontravo la parte di me rimasta fuori dal matrimonio, a te sconosciuta e a me rivelata solo dall’irruzione di una verità potente e luminosa che mi ha accecato, lasciandomi nella vergogna felice e affamata di ciò che ero veramente. “Povera Renza”, quante volte tornando a te dalla mia ombra io l’ho pensato; senza pentirmi, però, della mia gioia sana, colpevole e vile. Ti volevo bene, te ne ho voluto sempre come me ne volevi tu: in quel modo preoccupato e sollecito, distante dalla gelosia e dall’intimità - che sbrigavamo come una faccenda goffa, marginale e maldestra, cui facevamo seguire subito l’elenco degl’impegni dell’indomani fra le carezze del ringraziamento. Non ho mai desiderato una vita senza di te, Renza: la tua fredda ironia mi divertiva, la tua indipendenza mi rassicurava. Apprezzavi la mia compagnia e non avevi bisogno di me. Eri intelligente e simpatica, orgogliosa di cavartela da sola: perché avrei dovuto rinunciare a te? Non lambiccarti per scoprire chi è. Non la conosci. La persona, intendo. Non ho detto sia una donna. E non te lo dirò. Quella che adesso ti sembrerà un’offesa insostenibile diventerà presto la tua consolazione. Il dubbio lascerà un margine alla speranza di non aver avuto forse rivali del tuo genere. Potresti essere stata l’unica donna che io abbia amato sinceramente, di quell’amore monco e infantile che era il solo modo ch’io conoscessi di amare. Avrei potuto non dirtelo mai, lasciarti vivere in pace col presente che ti resta e coi ricordi, ma la verità premeva dentro di me come l’unico dono che potessi farti a costo del tuo odio. Dovevi sapere, alla fine, con chi avevi passato la vita. Tieni, se puoi, per te questo segreto. Non raccontarlo alle amiche. Considera il pudore della confessione affidata ad un quadro e il rischio che tu possa non trovarla mai, ignorarla e ignorarmi per sempre. Sarebbe questo il mio castigo. Addio, Renza. Accetta questa insolita, tardiva forma di rispetto come un penoso atto d’amore. Ruggero”.

Barbara chiuse la lettera e si sentì l’ambigua custode di un dolore risparmiato e di una commossa verità perduta. Immaginò la fatica di un uomo prossimo alla morte che si mette a scrivere, a rivelare e nascondere per l’ultima volta, in una specie di scommessa col futuro che non sarà più il suo, la confessione dovuta alla moglie; e la pacata indifferenza di colei che, trascurata la molesta inesattezza delle misure del quadro, invece di aprirlo per correggerle, lo porta dal rigattiere per liberarsene. E lì il quadro rimane, datato al suo ingresso, un anno e mezzo invenduto, spostato in zone sempre più remote, il prezzo che scende col trascorrere dei mesi, offerto ad un pubblico che non s’interessa all’isola di pietra sorretta dai platani nudi, pronti, ad un solo cambio di sguardo, ad annegarla. Nessuna luce brilla sul paesaggio, non uno spicchio di luna, non una stella. È nero fondo il cielo, e il segreto che contiene non s’immagina. Perché Renza, contravvenendo alla sua consuetudine per l’ordine e la simmetria, non lo avrà aperto? Quanto Ruggero s’illudeva di conoscere la moglie? Quanto credeva di deluderla? Ecco, è sufficiente un lieve spostamento dell’angolo visuale e l’isola pare risucchiata dalle acque oscure orlate di minuscole creste bianche. Ciò che prima appariva come un estremo gesto di affetto malato ora assomiglia ad un volgare atto di presunzione.

L’estraneità ha coperto e sciolto tutto: segreti, pietà, compassione, temuti rancori e delusioni. Barbara piega il foglio scritto in inchiostro verde e lo rimette al suo posto, fra la litografia e il chiodino. Incolla la carta sul retro e appende il quadro a destra della libreria. È contenta dell’affare, certa che il “Paesaggio sotto la neve” non potesse trovare un acquirente più incantato e morboso di lei.