di Valeria Amerano
(Racconto pubblicato sull'antologia del 10° Concorso di scrittura poesia, racconti - "Le donne pensano, le donne scrivono" - a cura della VI Circoscrizione della Città di Torino - marzo 2014.)
Ci improvvisammo villeggianti come i montanari si atteggiarono a locatori. Avevano le capre nella stalla, una mucca, un cagnone e due stanzette da affittare al primo piano. Altri avevano già smesso gli attrezzi agricoli e gli animali in cambio di un posto in fabbrica, al feltrificio o alla Fiat, ma qualche buco imbiancato e ammobiliato da mostrare ai cittadini della pianura lo tenevano da parte. Rendeva, se non erano troppe le pretese dei villeggianti. Camerette basse che in genere sapevano di mele per averle ospitate in inverno. Gabinetti in fondo ai cortili o appesi ai balconi come garitte con la finestra ottenuta da due mattoni mancanti. Vasche in cui si raccoglieva l’acqua (da usare lo stretto necessario) che scendeva dai rubinetti. Bucati al lavatoio di pietra, dove le signore, se erano di origine contadina, ripassavano le consuetudini della giovinezza; se erano figlie della città giocavano a inventarsi un abito valligiano. Erano iniziati gli anni Sessanta, la Val Pellice guardava a Torre come alla sua piccola capitale, la cosiddetta Ginevra d’Italia, ultima destinazione del treno pinerolese, sede di un liceo valdese e di studi sinodali. Ma noi s’andava oltre: Villar, Bobbio e frazioni. Luoghi verdi e folti di una vegetazione innaffiata copiosamente da nuvole francesi che comparivano e si addensavano sempre dietro la stessa montagna, incappucciandola di una mantella che si scioglieva calando nella valle chiusa e concava come un catino. Fra tante montagne più o meno alte, più o meno aspre, ne spiccava una, di roccia grigia, dall’inconfondibile profilo di uomo addormentato con la bocca socchiusa e qualche raro albero a disegnargli i sopraccigli e una barba di due giorni sul mento. La gente parlava patois con i compaesani, e un piemontese dalle vocali strette con i villeggianti. Qualche decina di chilometri dalla città, il cemento di una lingua antica e secoli di lotte religiose concluse con lo Statuto Albertino facevano la distanza e il vanto di un popolo montanaro, geloso delle sue tradizioni valdesi e orgoglioso di avere adesso qualcosa di desiderabile da pattuire con l’antico avversario cattolico della piana. I luoghi erano belli. Ignorati dal turismo, si offrivano veri, naturali, impervi. Cieli turchini le mattine di sole sul verde brillante dei boschi, tramonti che bruciavano dietro la corona dei monti il sacrificio del giorno fino a spegnere le ultime ceneri nella gola del crepuscolo. Torrenti limpidi e rovinosi che si raccoglievano lungo il corso in pozze trasparenti, e fili d’acqua incassati fra le rocce verticali come bave o rivoli di sudore appena in grado di inumidire il muschio - già colpevoli, nelle piene d’autunno, di aver travolto ponti, uomini e animali. Aveva la valle qualcosa di indomito e selvaggio, e silenzi di boschi capaci di intimidire, comunicare e confondere. Fummo inquilini di diverse abitazioni. La prima, inevitabile, fu presso la signora Giustina, una vecchietta piccola e graziosa, bianca come la neve e con gli scuri occhi magnetici, detta da alcuni conterranei benevoli la Volpe, da altri più maliziosi “Tu dormi”, per la sua intraprendenza negli affari contrapposta alla serena inerzia del marito Etienne. L’edificio conservava le caratteristiche dell’albergo per cui era stato costruito e che per molti anni aveva funzionato; alle porte del paese, su un poggio dominante la strada, si presentava come il contrafforte di una frazione inerpicata dietro le sue spalle. Facilmente i villeggianti abboccavano al cartello “Affittasi” collocato presso il ponte, salivano a dare un’occhiata, e l’abilità della signora Giustina faceva il resto. Le stanze non erano brutte né maltenute: soffitti alti, pavimenti in legno, lavandini e fornelli in quantità, gabinetti pochi e in comune. Ma nelle case dei montanari, premetteva lei, era peggio.
E porte. Porte chiuse che rendevano le stanze tutte comunicanti fra loro. Nel mese di agosto il casermone si riempiva di famiglie e di bambini che sgattaiolavano dalla terrazza ai balconi ai sottoscala giocando a nascondino. Si rispettava però sempre un andito stretto, umido e oscuro in cui la signora Giustina e il marito si ritiravano quando all’improvviso venivano da Torre Pellice a sorvegliare gli inquilini o a constatare un guasto; vi passavano la notte e ripartivano con la corriera dell’indomani. Noi bambini ci interrogavamo sul bugigattolo in fondo al pian terreno cui nessuno tranne i padroni aveva accesso; e il fatto che a questi locali non corrispondesse neppure una finestra, lasciava perplesso più di un adulto. D’altronde di notte capitava, al primo piano, di sentir tossire dietro la parete di fondo, dove non risultava vi fossero camere né persone alloggiate. Siccome i bambini non possono vedere una porta chiusa senza desiderare prima o poi di andare di là, con la confidenza che il buon vicinato consentiva (e una comune curiosità solleticata dall’ozio della vacanza), cominciammo ad aprire le nostre porte e a introdurci da una famiglia all’altra fino a confluire, dai diversi lati dell’edificio, in una stanza con tre porte una delle quali chiusa a chiave dall’interno. Scoprimmo che tutte le nostre chiavi erano in grado di aprirla, e in un attimo, con una madre alle calcagna e una sulla balconata a vigilare che non arrivassero di sorpresa i padroni, fummo di là, nel cuore della favola. Ci accolse una penombra polverosa che odorava di rancido: non un solaio abbandonato, ma un luogo colmo di carabattole in uso, il letto disfatto, pentolini con condimenti rappresi, orinali umidi, pigiami, bretelle e panciere, imbuti e bottiglie, barattoli con frutti annegati nell’alcol, cibi in scatola, scarpe, canne da pesca. Una finestrella bassa e incrostata di ragnatele, affacciata sul retro dell’albergo a filo del terreno dove già razzolavano libere le galline dei Morel, rischiarava appena il ripostiglio cieco il cui pavimento si spalancava a un tratto su una scala a chiocciola ripida, buia e sporca che sfociava nell’andito vietato al piano terreno. Se l’albergo dei “Tu dormi” adesso era diventato una innocente residenza in valle per cittadini intisichiti, un tempo, doveva essere stato un eccellente rifugio con gli accorgimenti adatti ad accogliere, nascondere e favorire personaggi in fuga. Con la complicità e l’eccitazione dell’azzardo chiamammo il Professore a dividere con noi la scoperta. Lo accompagnammo a vedere, prima di richiudere tutto nel segreto del silenzio. “Ma questi,” disse sorpreso almeno quanto noi, “sono i Misteri di Parigi!”. Era un professore di lettere che tornava ogni anno per le vacanze. Da sposare, viveva con una sorella a Saluzzo. Non guidava. Lo portava in montagna e tornava a prenderlo il bidello con la Cinquecento. A volte il bidello veniva a trovarlo a metà del mese, allora facevano una gita, andavano a mangiare in trattoria. Il professore era un escursionista: ogni estate raggiungeva a piedi il Prà e si fermava a soggiornare una settimana al rifugio Jervis. Avvolto nei suoi silenzi pensosi, contemplativo e tutt’altro che stupido, Etienne era una bella figura di montanaro: alto, asciutto, il viso lungo e stretto e le labbra grosse di Lee Marvin, ma lo sguardo molto più docile. Fumava la pipa e sorrideva a qualcosa che vedeva solo lui guardando dalla terrazza la valle dispiegata, i fianchi rigogliosi dei monti e il torrente dove andava a pescare le trote. A volte arrivava da solo sul suo Motom, la canna da pesca e un cestino a tracolla. Portava sempre pantaloni di velluto a costa larga, le pedule di feltro con la lampo e un cappellino di foggia tirolese. Non pativa affatto l’esclusione dai traffici immobiliari della moglie, e i suoi contatti con gli inquilini si limitavano ai cordiali saluti quando li incrociava uscendo in cortile dal suo stambugio e ai tentativi di sgorgare vasche di contenimento, lavabi e gabinetti prima di mandare a chiamare in bettola l’idraulico. La Volpe aveva esperienza e memoria, e sapeva intrattenere le persone con interessanti racconti di vita in montagna; in tutta la casa non c’era un telefono né un televisore né un frigorifero. Il paese non era ancora raggiunto dalla linea elettrica a 220 volt, restava ancorato ai 125. “Ma,” teneva a sottolineare la signora Giustina ogni primavera per rassicurare i suoi ospiti, “hanno già messo i pali”. Quando la sera tutti i villeggianti accendevano la luce per cenare le lampadine diventavano del colore del rame; mio padre, già fortemente turbato dall’affollamento e dalla promiscuità dei servizi igienici, sbottava: “È ora di finirla con questa luce da tango!”. E precipitava in una sua astratta malinconia. Gli era impossibile, in quei momenti, non ricordare le vacanze della sua infanzia nella villa delle zie maestre, i diversi spazi per cucinare, mangiare, leggere, ricevere visite, dormire. L’ombra profumata di frutti e resina del giardino e la perdita di tutto per l’avidità di qualcuno. Ora mi guardava frullare entusiasta per disimpegni sudici e addormentarmi in letti di cui prima di lasciarmi coricare aspirava comicamente l’odore per raccomandarmi serio: “Ricordati di non mettere mai le mani in bocca dopo aver toccato la peretta della luce”. Perché? “È la cosa più sporca che possa esserci qui dentro”.
Di tempo nel casone lui ne passava poco: appassionato di pesca e selettivo ricercatore di funghi porcini, conosceva meglio i boschi e i corsi d’acqua dei vicini di casa. A pesca gli capitava d’incontrare Etienne, si scambiavano impressioni sulle migliori esche o cenni silenziosi, se avevano già la lenza in acqua. La Volpe mi aveva in simpatia e fu per questo, credo, che una volta mi regalò un vasetto del suo prezioso sciroppo di mele. Portai a casa il barattolino di vetro coperto da una stagnola sotto il coperchio di metallo tutto bucherellato. “È un vasetto che mi ha dato di mio marito”, mi aveva detto la signora senza sapersi spiegare il motivo di tutti quei buchini. Appena lo vide, mio padre si portò una mano sulla fronte e abbassò la voce che altrimenti sarebbe corsa per tutte le porte comunicanti dritto allo stanzino segreto: “Non puoi berlo! Sai perché questo coperchio è bucato? Etienne pesca con i vermi, come me. Il vasetto conteneva sicuramente i vermi per andare a pescare! Anch’io, lo sai, li metto in una scatolina di latta con i fori... Le trote vogliono le esche vive“. Oggi so che, se lo sciroppo non avesse avuto il coperchio sospetto, non me lo avrebbe lasciato assaggiare lo stesso pensando ai luoghi insalubri dove poteva essere stato distillato. Così i bambini imparano a mentire e a ringraziare di favori cui sono stati educati ad astenersi per il loro bene.
Verso le cinque del pomeriggio, su una motocarrozzetta color panna, annunciato di lontano dal megafono, arrivava Cecco il gelataio. Portava nella valle i deliziosi gelati sfusi della Gelateria Veneta di Pinerolo. Gruppi di bambini lo aspettavano in prossimità del ponte, dove Cecco faceva una fermata. Si desiderava aspettando in fila il proprio turno, si temeva che il gusto prediletto fosse esaurito e si pregustava il piacere guardando il grande cono di creme dipinto sul fianco del veicolo. Il gelataio era vestito di bianco anche lui come la carrozzetta e calzava delle babbucce nere friulane.
I negozi in paese erano pochi e tenevano generi diversi: oltre alle sigarette e ai giornali il tabaccaio vendeva i biscotti e il pane, che non era lo stesso che si acquistava dal fornaio o in un emporio dove si trovava di tutto: dalle bocce agli alimentari, dai detersivi alla frutta ai cordami. Il macellaio ogni giovedì legava un manzo fuori della bottega, lo lasciava in vista ai paesani e ai villeggianti perché tutti potessero constatare la qualità delle bestie che si preparava a macellare. L’animale aveva il presentimento della morte, sbavava e orinava abbondantemente tirando la fune corta. L’indomani avremmo visto la sua testa esposta in vetrina con un’ortensia in mezzo alla fronte, a coprire il foro della pistola.
Passeggiando nei castagneti e conoscendo meglio gli abitanti della frazione, trovammo in seguito a sistemarci presso la famiglia di contadini da cui compravamo il latte. Abitavamo al secondo piano della loro stessa casa, due locali ariosi con la vista sul cortile, l’orto e il pergolato di clinton. La mattina alle quattro il galletto cantava, ma dopo pochi giorni non lo sentivamo più. I fratelli del padrone erano emigrati chi in Canada, chi in Belgio. La nonna, seduta in cortile, faceva le calze di lana con i quattro ferri e aspettava le lettere dei figli lontani. Ogni tanto ne arrivava una con dentro la fotografia di un neonato; allora lei diceva: “Scimmione d’uno scimmione” prima di commuoversi e di passare lettera e foto alla nuora.
Il patois non ci era più così straniero e, anche se non avevamo imparato a parlarlo, ne capivamo il senso. Una volta, volendo andare a comprare il miele da un apicoltore, domandammo la strada a una vecchietta simpatica che vedevamo passare la domenica con il cappellino da festa, diretta al culto. Lei si sbracciò dal suo balcone di legno: “Se andate avanti di lì ci arrivate lo stesso, ma se volete la strada più corta girate di qui e poi prendete lo Stretto dei Dardanelli in mezzo alle case”. Da allora quel passaggio angusto rimase anche per noi lo stretto dei Dardanelli.
C’erano giorni, all’inizio dell’estate, accompagnati dal suono dei campanacci di greggi e mucche che salivano agli alpeggi, passavano fra le case zoccolando, sollecitate da cani e pastori; dalle stanze sulla via si avvertiva un avanzare voluminoso di bestie morbide, pesanti, obbedienti. Il suono durava ore, sempre più flebile e carezzevole a mano a mano che si allontanava, fino a lasciare nell’aria un’eco appena udibile. A tratti si scorgeva sui sentieri più scoperti della montagna la massa bianca delle greggi che procedeva serpeggiando, si piegava a superare un’erta; infine dava un senso di sollievo vedere gli animali sparpagliati come briciole sui pianori più alti a brucare in pace. Restavano su tre mesi con i pastori, tornavano con le giornate corte, le prime nebbie e i fienili pieni. I formaggi degli alpeggi erano venduti ai mercati o alla Latteria Sociale, dove si raccoglieva il latte munto nella valle. La lavorazione del latte e dei formaggi rendeva il luogo maleodorante fin sulla strada e, lungo il fossato dove si versavano gli scarti liquidi della produzione, era facile vedere guizzare bisce o vipere attirate dall’odore del latte. In paese tirarono su il primo condominio, bianco con le imposte di legno e i balconi dipinti di rosso. “Una bella casa”, disse mio padre a un valligiano che pascolava nei pressi le sue pecore. “Io non ci abiterei” rispose quello. Mio padre s’incuriosì. “Vede quella roccia che sporge là in alto?” gli indicò l’uomo con la punta dell’alpenstock cui si appoggiava, “noi la chiamiamo Il becco dell’aquila. Se un giorno, con le alluvioni, dovesse staccarsi andrebbe a finire dritto sul condominio. Le rocce che vede qui in basso non sono mica nate qui… Sono rotolate… di qualcuna ce ne ricordiamo, di altre no… ma sono arrivate tutte dalla montagna. Prima di costruire bisognerebbe ascoltare i vecchi”.
Affittavamo già dagli stessi proprietari un rustico riattato con un bel cortile verde quando, un giorno, vedemmo passare sulla strada un antico carretto funebre col baldacchino nero, tirato da un asino. Portava giù lentamente dall’ultima frazione, oltre i mille metri, le spoglie di un vecchio montanaro che incontravamo il giorno di mercato col suo zaino in spalla. Ora lo precedeva il Pastore valdese con il Nuovo Testamento in mano. Ero bambina, ma avevo già visto, e subito mi venne in mente, Il posto delle fragole. Ci fermammo tutti a guardare, i cattolici si fecero il segno della croce. Nessun trasporto funebre dava il senso della semplicità e della verità della morte come quello. L’umiltà ci tolse le parole. Non potevamo negare che la durezza della scena avesse una grazia suprema.
Non lo rivedemmo passare mai più. Molti anni dopo, passeggiando con i miei genitori per le antiche stradine, io adulta, ci affacciammo a una stalla, ormai proprietà del Comune, spalancata (un invito alla curiosità) senza più dentro animali né pastori. Ma non vuota. Il carretto funebre era là, solo, in un angolo. Senza volerlo, lo avevamo ritrovato. In seguito non ci sembrò un caso. Mio padre non vide, dopo quella, altre estati.
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