Vinto il concorso magistrale negli anni Settanta, mi arruolai nel tempo pieno. Dividevo la cattedra con una collega scelta dal caso, una quarantenne romana pingue e sudaticcia che amava le correnti d'aria quanto io le pativo, e mi parlava incessantemente di tutte le inezie quotidiane che suo marito s'era seccato di ascoltare. Per il mio carattere, una donna molto noiosa. Io tendevo a sottrarmi alle sue geremiadi appartata in un silenzio difensivo, e lei, nella sua cantilena lamentosa, mi chiamava in un modo che era già un richiamo. Mi accalappiava gli occhi con gli occhi malevoli, incattiviti dall'ironia che non risparmiava agli alunni più trascurati (dai genitori dei quali non avesse nulla da temere). Ogni giorno rivedendola speravo che un miracolo l'avesse resa muta; e ogni giorno la sua voce m'inchiodava, querula e autoritaria, pronta ad assegnarmi incarichi onerosi elargiti come favori o a travolgermi con foga torrentizia in nuove maldicenze che mi procuravano il piacere di uno straccio freddo buttato sulla schiena. Oggi il nostro sodalizio si fonderebbe meno sulla mia pazienza; ma a quel tempo ero giovane e stentavo a liberarmi da quella soggezione un po' goffa che, nell'educazione in cui ero cresciuta, si confondeva col rispetto dovuto ai veterani.
Emilia, così si chiamava la collega, usava un linguaggio rancido che raggiungeva il suo apice quando a Emanuele sanguinava il naso: "Allora, è scemato il flusso?" oppure in refettorio: "Masticate prima di deglutire!"... "Non si dice: non mi piace, ma non lo gradisco!..."
Non perdevamo un pretesto per andare a zonzo, in tutte le stagioni, con ogni tempo atmosferico. Nella neve o sotto la pioggia battente percorrevamo la città con la nostra cucciolata schiamazzante, sparsa nella folla degli autobus: andavamo a visitare consorzi agrari e mattatoi, centrali elettriche e uffici anagrafici, centri di raccolta dei rifiuti urbani e laboratori di panificazione. I genitori accordavano volentieri il loro consenso a musei tradizionali o teatrini, ma erano le nuove proposte del Comune a sedurli: quale museo della marionetta poteva superare in interesse e curiosità un giro al caseificio o un ciclo di lezioni di canottaggio sul Po? Stavano a scuola otto ore, i bambini - ruggiva una vigilessa dal figlio sciaguratamente maleducato - pretendevamo forse di tenerli incatenati al banco otto ore?!... A dire la verità, alcuni di loro ci restavano di più se i genitori, occupati in uffici lontani, li avevano iscritti al "pre" e "post" scuola: entravano prima delle otto e se ne andavano dopo le cinque e mezza. D'inverno: da un buio all'altro. Rimanevano lì con un'assistente a veder uscire i compagni nel pomeriggio già spento di dicembre, i corridoi vuoti eppure ancora risonanti di voci. Pochi luoghi sono malinconici come una scuola deserta. La campanella liberatoria era suonata, ed essi erano ancora in sala d'attesa come chi non può lasciare la stazione finché l'ospite non venga a prelevarlo.
La scuola aveva dilatato il suo tempo e stava diventando felpatamente una cosa che doveva sbrigarsela da sola. Durava troppo a scuola e troppo poco a casa. I compiti non li voleva più nessuno: rovinavano il week end ai genitori e intralciavano gli impegni extrascolastici dei ragazzi: la danza, il calcio, il minibasket, il karate. Era cominciato il cammino che in vent'anni avrebbe trasformato gli alunni e le loro famiglie in utenti e gli insegnanti in contenitori. Nel tempo pieno le maestre avevano visto aumentare il volume delle loro mansioni con il progredire dell'offerta formativa. In refettorio sbucciavano frutti e sminuzzavano bistecche, spremevano arance e affettavano limoni; in piscina asciugavano corpi e capelli, rivestivano alunni in difficoltà, aiutavano a infilare collant e pedalini, allacciavano scarpe, s'affannavano in ricerche di indumenti, orologi, occhiali e apparecchi dentari perduti, dimenticati, scambiati, nascosti dai soliti pierini negli spogliatoi della piscina. L'orario scolastico settimanale comprendeva due ore non di nuoto - termine che avrebbe evocato deprecabile agonismo in un'attività che doveva risultare soltanto socializzante e motoria - ma di "acquaticità".
Fu in quella scuola delle visite ai mattatoi, dell'acquaticità e delle mille invenzioni che uscivano ogni giorno come colombe dalla manica di un prestigiatore, che cominciò l'erosione dello spazio e del tempo per la lettura solitaria, libera, individuale e silenziosa: quella che tra le mura domestiche si compie di solito sorseggiando un bicchiere di latte o rosicchiando un biscotto, magari sdraiati a piedi nudi con le dita nel naso. La lettura che soffre gli inconvenienti della convivenza protratta (l'aria chiusa che sa di scarpe indossate da troppe ore, la faccia antipatica di un compagno, la voce contundente della maestra, il pugno gratuito del disadattato che esprime così il suo bisogno d'amore); la lettura che concede qualcosa di sé fuori dall'ingranaggio, giù dalla giostra oliata, al riparo dei propri abissi, nella solitudine che spinge a fondo dentro se stessi quanto il gruppo tiene a galla col salvagente di un'attenzione superficiale e coatta, fu la prima a cedere al rumore di una scuola che dava la parola prima del pensiero.
Vogliono la scuola movimentata? diceva Emilia, e noi gliela diamo. Un corso di tessitura ci aveva portati a visitare nel cuore dell'inverno un laboratorio a Ceva e, inerpicata sulle colline lì intorno, una botteguccia leziosa dove due giovani tessitori azzimati e bamboleggianti ci avevano mostrato le loro ultime produzioni di scialli, ponchos, cardigan e abiti da sera femminili di cui la madre di un nostro allievo (l'ispiratrice della visita) era da tempo squisita estimatrice. Durante la spiegazione del più loquace dei tessitori, ero stata attratta da una serie di piccoli oggetti esposti sulle mensole in alto: porcellini di legno antropomorfi che si annusavano sotto le code, miniature erotiche di gusto orientale o classico, teneri versi d'amore incorniciati rivolti da un uomo a un altro uomo. Uscita dalla bottega, Emilia mi aveva consultata perplessa: "Hai avuto l'impressione che si trattasse di due giovani di tendenze omosessuali?". Risposi nel suo stile: "Ah, non saprei proprio... Ero tanto presa dalle molteplici trame della tessitura".
Un'altra volta la partecipazione a un concorso a tema ecologico ci valse una gita sulle rive del Sesia. Era la fine di maggio, una giornata calda. L'autista aveva fermato il pullman al limitare di un boschetto, dove la strada sterrata si sollevava in ondulazioni da motocross prima di sparire in una viottola buona per le coppie e i cacciatori. Emilia aveva fatto delle parole perché s'inoltrasse; lui aveva provato a spiegarle che non era sicuro avventurarsi col mezzo in luoghi che avrebbero potuto franare; poi, visto che non riusciva a farsi capire, aveva cominciato a scaricare dal portabagagli la nostra roba: gli scatoloni di polistirolo con i venticinque pasti freddi forniti dalla mensa, le tredici coppie di vasetti di yogurt, il sacco di plastica con le venticinque mele delizia e quello di carta con altrettante pagnottine, posate e bicchieri monouso. Eccoci serviti. Più avanti era il fiume. Lui andava in paese a mangiare un boccone. Alle sedici e trenta lo avremmo trovato puntuale ad aspettarci. Ci avviammo col nostro carico in cerca dell'oasi naturale, degli aironi promessi e dell'ombra. Il tempo del pranzo al sacco in cui ogni bambino si portava da casa i suoi panini era finito: con l'iscrizione alla mensa scolastica pensava la ditta a inviare piselli, insalate russe, uova sode, tranci di tonno, cosce di pollo, tomini o stracchini confezionati in razioni che noi dovevamo ogni volta trasportare come una carovana di portatori. Percorso in fila indiana un tratto assolato, giungemmo in vista del Sesia. Emilia s'innamorò dell'altra riva. Più in ombra, diceva, e più ricca di vegetazione di quella dov'eravamo noi. Prese a desiderarla tormentosamente. I bambini le facevano eco. Un pescatore, dritto in mezzo alla quiete del fiume, ci dava le spalle, non ancora accorto di noi. Ricordai quando accompagnavo mio padre a pescare, il silenzio molesto che avevo dovuto imparare per assistere a un'attività in cui una persona si rilassa mentre l'altra si annoia. Non ebbi il tempo di fermare la collega, che già la sua voce si spiegava sul fiume: "Scuusii... Potrebbe indicarci il guaaaadoo?". L'uomo si volse come a una calamità. Non ci rispose, tornò a guardare torvo davanti a sé.
"Che non abbia capito?" mi domandò contrariata Emilia.
"Ha capito benissimo, ma lo abbiamo disturbato".
"Beh, noi stiamo lavorando".
"E lui forse ha preso una giornata di ferie..."
I bambini gareggiavano ormai nel chiamarlo più forte: " Pescatooree!... Pescatooree!..."
L'altro, silenzio.
"Potrebbe anche essere più gentile, ti pare?..."
"Lasciamo perdere il guado," dissi," più avanti troveremo l'ombra".
Ma lei era una di quelle donne vessatorie che fanno compiangere i mariti: "Perché non provi a chiederglielo tu?" mi pregò con la boccuccia stretta di un barbagianni deluso.
Cedetti: tanto, per quel giorno, il nostro amico aveva finito di pescare.
"Ehi! dica..." lanciai attraverso il fiume. L'uomo si girò di scatto.
"Si passa di là?..."
"Sì!" mi urlò furibondo; e battendosi una mano dimostrativa sulla coscia : "Coi gambali!".
Valeria Amerano
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