di Valeria Amerano
Il presente brano ha vinto il Premio Rivoli 2012 ed è stato pubblicato sull’omonima antologia.
So poche cose di lei, e le ricerche che mi ero ripromessa di fare sono tuttora un abbozzo di volontà incompiuta. So che è esistita: entrata nella vita come un vento lieve, ne è uscita col fragore di un uragano. Poi tutto dopo di lei è rientrato nel silenzio, come a voler nascondere e cancellare la rovina del suo passaggio. Ho una sua lettera fra le mani e, mescolato al mio, il suo sangue. Oggi violo una consegna, un oblio durato quasi un secolo, e spero di non attirarmi per questo una maledizione. Del resto sono l'unica e l'ultima che possa recare un omaggio alla sua memoria e, dunque, un oltraggio al suo segreto. Non so cosa lei desidererebbe, ma la testimonianza estrema di un atto di amore non offenderà la sensibilità di chi lo ha concepito. Era il 1912, l'anno del Titanic. Il suo libretto di lavoro s'interrompe con la violenza di un colpo di forbici alla vita alla fine di giugno, senza dimissioni spontanee né licenziamenti, per improvviso decesso.
Nata nel 1892 a Torino, Costanza M., fulva, occhi grigi, altezza uno e sessanta, segni particolari nessuno secondo le descrizioni del suo documento d'identità, avrebbe compiuto vent'anni il mese di novembre se non si fosse uccisa alle soglie dell'estate. Era una sorella della mia nonna paterna la prozia di cui nessuno parlava mai. Ricordo alcuni centrini ricamati con iniziali che non riconoscevo come nostre e di cui la mamma mi aveva intimato di non chiedere nulla. Poi fu lei stessa, dopo la morte di tutti coloro i quali avevano custodito il segreto, a raccontare; con quel realismo che aveva sempre avuto nel mettermi in grembo la storia come dovesse nascervi qualcosa - lei, ultima a credere agli aborti dell'arte. Fu un suicidio d'amore. Un amore bastardo non ricambiato e forse neppure dichiarato per l'inammissibilità che supponeva, fin dal principio, lo stravolgimento di ogni regola morale e religiosa in cui la ragazza era cresciuta. Un uomo sposato, il padrone dell'azienda per la quale essa lavorava.
E qui mi manca il supporto dei quotidiani dell'epoca, con la cronaca dello scandalo, del ritrovamento e dell'identificazione del cadavere della fanciulla morta lungo le rive del Po, subito creduta una puttana e poi apparsa integra all'autopsia, o come mia madre aveva letto, ancora "pura come un angelo". Per qualche tempo, quei giornali, erano stati in casa. Li aveva trovati mio padre alla morte della nonna, che li aveva conservati settant'anni insieme ad altri documenti e al libro che la sorella leggeva in quei giorni: Lucia di Lammermoor.
Il segno era fermo al giorno prima del suicidio come un orologio inceppato sull'ora del terremoto; e quando lei la ripensava, china sul libro, doveva considerare quelle ultime pagine come la reliquia che aveva catturato lo sguardo supplichevole, sfregiato da un male che nessuno dei genitori e delle sorelle, col loro amore sicuro e la giovinezza leggera, aveva percepito. Quel libro era stato il tavolo di un disegno maturato nell'ombra, l'interlocutore muto al respiro del quale Costanza aveva intrecciato il progetto della propria morte senza riceverne un segno di dissuasione o di aiuto. Con l'amore l'aveva invasa un sentimento che era allo stesso tempo il senso, la spinta e il blocco di ogni azione. Un amore per il quale non vedeva un presente se non nella distruzione, nella vergogna che avrebbe sporcato con un nome la purezza dei migliori intenti, e la perdita della stima delle persone care.
Ma neppure avvertì in sé la minima possibilità di recedere, di rassegnarsi, di vivere oltre quell'evento consolandosi nella rinuncia adulta o indirizzando la sua femminilità appassionata verso altri ripieghi. È la nausea precoce e definitiva di questa creatura a sconcertare: quella da lei presentita in ogni azione, impegno o risarcimento che avessero tentato di portarla lontano dal centro del suo essere; come avesse intuito in un lampo di felicità cruda e inarrivabile che non valeva la pena redimersi, perché non vi sarebbe stata redenzione: un albero bruciato sarebbe rimasto sempre un albero bruciato e un satellite un astro minore incatenato alla sua stella.
Non aveva mai tenuto dentro di sé un uomo, e quel che aveva provato per un uomo era bastato a ucciderla. Lo avrà saputo lui? L'aveva forse derisa e respinta? O lusingata con qualche gentilezza fraintesa da una fantasia troppo fervida? C'erano state lettere fra loro? L'avrà divorata la gelosia, tanto più irragionevole quando non ha alcun diritto di insorgere e sussistere? Sarà approdata ai giornali, la ragione vera, o confidata alla famiglia in una lettera d'addio e preclusa al resto del mondo dalla pietra del silenzio? Comunque sia, un gesto d'amore come quello prima o poi torna ad emergere come una condanna nella vita del suo destinatario, se gli è toccato di saperlo. Avrà avuto, quell'uomo, momenti di solitudine, d'incomprensione, di egoismo.
Compromessi e spartizioni, difficili equilibri da mantenere e rammendare forse col denaro, l'ossequio e qualche ipocrisia. Come non ricordare allora, in un baratro di incredulità e stupita riconoscenza, il dono assoluto di una ragazza che aveva dato la vita per lui, invece di difenderla per sé? Prima di ogni guerra che attendeva il secolo, la giovane aveva incontrato e risolto la sua guerra lasciando tutti a domandarsi se, alla fine, l'avesse davvero persa o vinta.
Dunque non saprei dire se quel giorno di fine giugno fosse luminoso, scompigliato dal vento caldo o se il cielo su Torino fosse la solita volta grigia con l'afa che preme dietro la voglia indecisa della pioggia. I passi, determinati, lucidi, stampati nella disperazione, l'avevano portata in piazza Vittorio, nella farmacia dov'era conosciuta: mandata, d'abitudine, a ritirare i veleni da spargere sulle piante dei giardini che i suoi genitori accudivano per alcune famiglie nobili. Non so quanto abbia sofferto, e spero le sia stata riservata la pietà di una morte veloce. Avrei trovato queste risposte sui vecchi quotidiani che mio padre si affrettò a far sparire, non appena si accorse che mi piaceva scrivere. Mi addolora li abbia buttati via: come a sbarrarmi una strada, a sigillare nel buio, fino a rinnegarla, una vecchia storia di famiglia, a impedirmi di affondarci le mani.
Ma non fu per dispetto o vergogna che egli agì in quel modo: fu una specie di prudenza, credo, a consigliargli di negarmeli. Lui, nemico di ogni eccesso che facilmente scompaginava e nutriva le nature esaltate di casa nostra, aveva voluto sottrarmi ad un esempio malsano e al suo fascino sinistro. Tuttavia restò una letterina. Come il capello sul luogo ripulito del delitto. L'indizio innocente di un tempo ignaro, sconosciuto al richiamo mortale dell'amore: quando i confini del mondo erano per una ragazzina di dodici anni quelli del giardino, la strada che conduceva a scuola e la domenica al fiume. D'inverno, la gioia dei pattini sul ghiaccio con le guance punte dalle vespe del gelo. La grafia è bella e disciplinata; sotto un mazzo di fiori di carta ritagliati, uno dei quali spalanca ad un soffio la corolla di velina rosa, prende forma la voce di un'assenza.
"Cari Genitori,
non so dirvi grandi cose perché ancora piccolina, ma lascio a voi di leggere nel mio cuore e di interpretare i miei desideri e l'espressione de' miei affetti. Vi auguro il buon Natale ed il buon Capo D'Anno per questo e molti altri anni ancora. Vi ringrazio di tutte le cure di cui mi circondate. E pregherò Gesù Bambino per la vostra felicità.
Gradite tanti affettuosi baci della vostra affezionatissima figliuola Costanza"
Non si sente in questa composta lettera, di un'età incontaminata, lontana da ogni struggimento, l'alone di un presagio che le fa augurare il buon Natale ai genitori per tanti anni a venire?Quanto pensava, che non scriveva, questa bambina commossa e ornata di malinconia?
Ora sono io, che ho tradito il silenzio, a doverle qualcosa. Un segreto, sì, mai rivisitato. Avevo venticinque anni, gli occhi assetati di un animale alla macchia e un fermento nel cuore che nessuno immaginava. Un'alba, la fronte contro le imposte accostate dell'albergo di Castiglioncello, dove non potevo più dormire né rimanere a letto per un languore che mi teneva gli occhi e i sensi avvinghiati al ruggito del mare inarcato sugli scogli della caletta, un occhio dietro le spalle a vigilare il sonno di mio marito, la invocai: "Costanza, dammi un amore come quello che hai conosciuto tu. Lo voglio. Dammi la forza di attraversarlo e di restare viva. La forza che tu non hai avuto".
Per un attimo ebbi paura che mi rispondesse nella violenza rabbiosa del mare, venni via dalla finestra e ricacciai quella stupida preghiera. Lei no. Non la dimenticò. E fu prodiga nell'accontentarmi. Ma sono ancora viva. Perché, alla fine, deve restare qualcuno ad accogliere il dolore e a scrivere la storia.
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