di Valeria Amerano
(Presentazione a cura di Gianluigi Camera)
Pubblichiamo il racconto di Valeria Amerano che ha vinto recentemente il 1° Premio di narrativa della XI edizione del Concorso di Narrativa e Poesia dedicato alla memoria del poeta Gian Stefano Primo Raiteri di Quargnento (AL).
La Direttrice di questa Rivista non è nuova a riconoscimenti del genere. Più e più volte il suo stile narrativo personalissimo e raffinato è stato apprezzato e considerato degno di riconoscimenti ufficiali.
Con questo Racconto Valeria Amerano ancora una volta testimonia la sua originale scrittura: un cesello che sa ritrarre le pieghe più nascoste dell’animo umano attraverso l’osservazione disincantata, venata di umorismo e di tristezza, di tipi e situazioni che nascono nel tempo e negli ambienti a lei vicini.
La mente dell’autrice è uno scrigno prezioso che osserva e ritrae frammenti di vita che sulla pagina sbocciano e danno corpo a esilaranti bozzetti.
C’è però sempre nella sua scrittura, oltre alla fotografia puntuale della realtà, un rimando autobiografico, un ricordo, una riflessione che spicca improvvisa e toccante. E la situazione descritta finisce col suscitare una identificazione col vissuto affettivo dell’autrice.
Questo Racconto non fa eccezione: “ …Sono così le case che abbiamo amato… crediamo di svuotarle… ma dentro abbiamo lasciato le stelle”.
La vedova Airaudo s'innamorava dei preti. Era una brava donna sulla quarantina, senza figli, un po' goffa, taurina nel tronco tondo installato sulle gambette sottili, il doppio mento, la bocca insufficiente a ospitare una campata di denti in soprannumero che impedivano alle labbra di congiungersi per pronunciare le labiali. La osservavo mentre si specchiava misurando gli abiti che mia madre le cuciva. Facevo le elementari ed ero attenta: a scuola perché mi obbligavano, fuori perché mi piaceva. Aspettavo che l'Airaudo dicesse "Basta, piega, arciapà, anbastì" per vedere il suo labbro inferiore articolare le p e le b contro lo steccato dei denti. A volte le usciva uno spruzzo di saliva, come gli zampilli intermittenti che rinfrescano l'erba dei giardini. Viveva della pensione del marito e occupava le giornate vendendo oggetti sacri, rose benedette e vite dei santi alla bancarella della parrocchia. Santa Rita era notoriamente protettrice degli impossibili e, dunque, dei matrimoni riusciti come il pane crudo, delle prostitute, le vedove, le ragazze madri e tutte quelle donne che hanno il destino incompiuto nella mente o ingorgato sullo stomaco. Ogni giovedì, il giorno a Lei dedicato, la chiesa si riempiva di un campionario di fedeli diversissime per età, censo e abbigliamento, ma tutte con una preghiera da formulare alla statua d'argento, la candela da accendere e la rosa da comprare.
L'Airaudo aveva i requisiti per stare dietro un banco di vendita in chiesa: mancandole la civetteria e l'interesse di una vera commessa, si applicava al suo compito con l'aria umile e insignificante di una ragazzona di provincia, timida e devota alla Santa e ai reverendi che impregnavano di senso la sua vita amputata. Negli anni Sessanta la parrocchia era piena di preti giovani e, a parte il vecchio parroco, aitanti. Il più bello era don Franco; il più simpatico don Guglielmo, che si faceva chiamare don Willy, il più sereno e pacioso don Bernardo. La mia famiglia non era bigotta né bazzicava la sacrestia in cerca di favori. Una nostra zia nubile (che viveva in due camere col gabinetto fuori) aveva donato al monsignore del suo paese cinque milioni di risparmi alla fine degli anni Cinquanta, secondo modalità che a ripensarci lasciavano perplessi sull'onestà del beneficiario; perciò noi frequentavamo la chiesa con Cristo nel cuore e qualche riserva alle prediche dei suoi vicari. Mia madre pensava lei a disseminare la nostra vita di divieti, alla fine forse più pesanti di quelli imposti dalla dottrina. Mentre molti parrocchiani partecipavano attivamente a cori, novene, penitenze e processioni avvitando i cardini della propria esistenza alla chiesa, la nostra familiarità coi preti si limitava all'ascolto passivo della messa dai banchi e all'esperienza diretta, frammentaria, imbarazzante e impudica del confessionale. Ma quando l'Airaudo veniva con i tagli di stoffa tra le braccia per farsi confezionare nuovi abiti, il sipario sulla vita privata dei sacerdoti si scostava lasciando filtrare scorci inaspettati. Don Franco, il più attraente, era figlio di un generale e aveva indossato la tonaca per una delusione amorosa. Sanguinava il cuore a saperlo votato al sacerdozio.
Era il prototipo del principe azzurro che ciascuna di noi, bambine del catechismo, avrebbe voluto come fidanzato già a sette anni. Nobile e calmo, di una dolcezza lacerata che suscitava la protezione materna, rappresentava il sacrificio più alto alla religione, il senso penoso della bellezza desiderata, tormentosa e inutile. A che serviva che un prete fosse bello? Alla bellezza si consacrava l'amore, l'arte, il cinema; alla solitudine del sacerdote bastava la pietà. Ma Don Franco era anche buono. Peggio ancora! Un mezzo uomo che portava e spargeva intorno a sé la malia del disastro. La decisione di don Franco di pronunciare i voti aveva sconvolto la sua famiglia e dannato i rapporti con il padre, raccontava commossa l'Airaudo, che metteva a disposizione del giovane reverendo la sua casa, prima e dopo il martirio di ogni visita ai genitori. Don Franco accettava la carità della vedova come la consolazione di una buona madre o di una sorella maggiore, confidandole ansie e afflizioni - più che sufficienti a moltiplicare e sublimare i sentimenti e la generosità della donna verso di lui. "È venuto l'altro giorno prima di tornare a casa, ha fatto il bagno... Non voleva fermarsi a cena, ma io ho insistito... So che il momento più difficile per lui è trovarsi a tavola col padre davanti. Avevo pronte due fettine d'arrosto e le patate al forno".
A sentire che don Franco veniva a fare il bagno a casa della vedova Airaudo mi saliva in gola una voglia irrefrenabile di ridere. Mia madre col suo metro al collo mi lanciava un'occhiata feroce con la quale mi ordinava in silenzio di ritirarmi subito di là; io la supplicavo con gli occhi di lasciarmi, e con la bocca rinserrata promettevo solennemente di non ridere e di non raccontarlo a nessuno. Era meglio che andare al teatro. Mentre io e la mamma comunicavamo come due compagni a tressette, la vedova recitava una specie di monologo alla propria immagine nello specchio, coll'abito imbastito indosso, lasciando trapelare, nello sguardo illuminato dalla speranza, la domanda e il compiacimento che sempre provano le donne dalla sarta, quando s'immaginano guardate dall'uomo che amano. Ella allora enumerava i regali che aveva già dedicato al sacerdote più caro: corredi di calze, fazzoletti, sciarpe di lana, guanti di pecari e biancheria; e quelli che aveva in mente ancora di prodigargli. Lui puntualmente divideva tutto con i poveri. Gli altri preti avevano un maggiore senso della proprietà, ma Don Franco non poteva trattenersi dal donare a chi soffriva di più... La mamma le dava corda: "Ma si capisce, provenendo da una famiglia benestante, non ha provato, diciamo così, le necessità, mentre gli altri magari..." E allora l'Airaudo apriva con tenerezza lo scrigno privato delle nostre sacrestie: Don Willy era il sesto di sette fratelli... Don Bernardo era nato in una baita in Carnia... il parroco era un orfano allevato dagli zii vinai... Venivamo a conoscenza di quei dettagli umani che ridimensionano le nature più distinte: la dispepsia dell'uno, gli eczemi dell'altro, la repulsione per i fiori e l'allergia del parroco agli odori, fino a spalmarsi le narici di vaselina per poter aspergere impunemente l'incenso. E a completare l'affresco della nostra comunità parrocchiale come un arco di serafini, erano tutte le catechiste dell'oratorio e le alacri signorine che svolazzavano nelle cronache dell'Airaudo come uno stormo di colombelle e cornacchie dai nomi forgiati dal destino: Tota Gnarda,Tota Felicina, Madama Cairusso e le gemelle Rubatto, la Clelia e la Nuccia... Un manipolo di collaboratrici gioiose che organizzava raccolte e distribuzioni di beneficenza, pellegrinaggi a chiostri e santuari; e ad ogni incontro pastorale si metteva in marcia o ai fornelli per celebrare o inaugurare, salutare il confratello che partiva o il vescovo che arrivava.
Per l'Airaudo ogni funzione religiosa era un'occasione per respirare l'amore: camminava nella scia dell'amato tenendosi a distanza - non sentendosene degna e non potendo aspirare ad alcuna vicinanza. Senza peccato, dietro al suo amore giovane e proibito, eppure autorizzata dalla fragilità e dalla solitudine di lui ad offrirgli l'ospitalità della sua casa; senza illusioni né diritto di pronunciare o attendere; senza poter contare su qualcuno o per qualcuno: esistere sperando di servire. Lei matura, sgraziata e incolta, prescelta come intima amica da un sacerdote giovane, splendido e sofferente nell'anima. Aveva annusato la felicità, la vedova Airaudo, se l'era trovata fra le mani per sbaglio e prima di perderla voleva almeno tenersi qualche briciola. Rinnovava il guardaroba per partecipare di lontano, per essere la degna comparsa sullo sfondo del protagonista: capi scuri, seri, classici nel modello e nei colori spenti, per non apparire in festa né ammiccare all'allegria (la sua felicità procedeva pur sempre da un dubbio: l'angoscioso turbamento di un uomo diviso tra le vendemmie della terra e le mense del cielo); vestiti nuovi e vergini per le date che li avrebbero segnati. Un giorno poi, ritrovandoli fra gli altri in naftalina, li avrebbe accarezzati col palmo e col dorso della mano... Certo, nessuna donna che venisse a misurare gli abiti cuciti da mia madre parlava del proprio marito con la venerazione e il candore con cui la vedova Airaudo raccontava i suoi preti.
Mentre spesso le mogli ridicolizzavano i mariti bersagliando le loro abitudini o le vedove s'incrinavano di rimpianti, lei nominava i reverendi con la gioia pura e fiduciosa di un'adolescente che si apra alla vita. Non c'era malizia né ambiguità nelle parole dell'Airaudo, né il timore della malizia degli altri. Era come se ignorasse di amare o collocasse il suo amore per il clero in una sfera intangibile al peccato. Il suo amore si assolveva da solo. La nostra vicina, la signora Rosa, una vecchia affittacamere che per oltre quarant'anni aveva visto sfilare nella sua pensione di via Mazzini studenti, professori, medici, ex ballerine, orchestrali e mantenute commentava con gli occhietti brillanti: "Eh, la fede! mica tutti ce l'hanno... La Maddalena sì: lei coi capelli asciugava anche i piedi a nostro Signore!". Dal suo nuovo balcone di periferia la signora Rosa guardava scolorire il Monviso e sorrideva allusiva ai transiti della chiesa dal nostro pian terreno; e io, senza capire, intuivo che il senso delle sue parole misteriose doveva trovarsi in quel passato alberghiero che lei tutelava nella cassaforte del suo sguardo lungo.
Venne per l'Airaudo il giorno più triste, coi soprabiti da vedova e i fazzoletti smerlati dell'addio. Don Franco aveva impugnato la sua giovinezza e versato in una decisione repentina tutta la passione che non poteva più comprimere: partiva missionario per il Brasile. La sua natura di betulla tremula aveva trovato dentro di sé il carattere del rovere: lontano da tutti, avrebbe servito in umiltà i fratelli più poveri e malati. Rassegnata, la vedova venne a ordinare a mia madre i vestiti del commiato.
Aveva gli occhi bassi e il pianto trattenuto in gola. Mia madre mostrò una meraviglia commossa, un profondissimo rispetto per il coraggio di Don Franco e una partecipazione materna alle ansie della vedova: i disagi, il clima, i serpenti, il cibo, i malanni, la sporcizia e... la freccia dritta di un'occhiata a me, che non mi azzardassi a domandare dove sarebbe andato adesso a fare il bagno. L'Airaudo provvide al sacerdote una quantità di indumenti di lino e accessori per la vita laggiù, nella missione che strappandoglielo dagli occhi tanto più saldamente glielo infiggeva nel cuore. E passarono gli anni. Pochi. Prima che fosse trascorso il quarto Don Franco ritornò. Con una moglie e un bambino. La vedova Airaudo lo sapeva. Da confidente e benefattrice, era stata informata dal reverendo del nuovo corso imboccato dalla sua vita. Fummo noi a saperlo in ritardo: quando vedemmo la famigliola varcare la soglia del pian terreno. La sposa era una splendida mulatta che sbocciava soda e tornita da un vestito a fiori; il bambino non camminava ancora. In abiti civili Don Franco era ancora più bello: la coscienza della propria irresolutezza, la pietà di tutto ciò che aveva conosciuto negli anni del sacerdozio, il travaglio di una scelta che infine aveva fatto trionfare la verità gli rendevano un volto dolce e paziente, amabilissimo. Diventò un professore di greco e latino in un ginnasio. La vedova Airaudo, dopo una decina d'anni, si risposò anche lei. In uno di quei pellegrinaggi parrocchiali per basiliche e romitori, aveva incontrato un vedovo. Lo seguì nella provincia di Padova. Ormai non mi stupivo più, né avevo domande imbarazzanti da fare a voce alta. Le risposte erano nelle mie ferite. Non tornò più a vivere nell'alloggio al pian terreno, la vedova Airaudo; ma non lo vendette mai. La piccola casa rimaneva disabitata per lunghi periodi, poi l'agenzia trovava un nuovo inquilino, sempre senza che lei tornasse a rivederla. Sono così le case dove abbiamo amato: parlano al nostro cuore lingue che non sentiamo più, in cui riconosciamo la nostra voce zittita; crediamo di svuotarle di tutto, chiudiamo le imposte e la porta alle nostre spalle, ma sappiamo che dentro abbiamo lasciato le stelle.
Ogni eventuale riferimento a fatti o persone reali è da ritenersi involontario e casuale
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