Editoriale

di Fabrizio Ferrari

In questo nuovo numero del notiziario associativo i diversi contributi offrono parecchi spunti di riflessione e diverse suggestioni. Un’attenzione particolare tuttavia la merita il concorso a cattedre e i progetti di riforma degli organi collegiali.
Chi non conosce la situazione in cui operano gli insegnanti può con fatica valutare pro e contro di questa procedura concorsuale; il ministero potrebbe addirittura dare l’impressione di un ritorno al merito, di un trionfo della conoscenza (normativa, pedagogica, psicologica, didattica, socio-affettiva) e di un risorgere della competenza, scolastica e disciplinare, di cui tutti gli insegnanti dovrebbero essere padroni.

Facciamo tuttavia una piccola digressione, in tono comparativo con una situazione di eccellenze che per tanti anni nella nostra scuola è stata presente: parliamo degli anni ‘70 e ‘80, anni in cui la scuola italiana ha saputo innovare e profondamente trasformare il tempo scuola e la figura dell’insegnante. Sono stati anni in cui i decreti delegati hanno visto ridisegnare la partecipazione scolastica, in cui è nato il tempo pieno e il tempo prolungato; anni in cui gli insegnanti hanno recepito nuovi orientamenti progettuali e li hanno saputi trasformare in una scuola di indubbio valore, in cui integrazione, accoglienza e saggezza erano parole ricche di significato.

Esistevano allora grandi spinte a sostegno della scuola, grande entusiasmo nella società, nella politica, nelle famiglie; gli insegnanti hanno saputo raccogliere tutto questo e farlo proprio, trasformando le classi e la scuola.

Da dove nasce oggi la nostalgia, malinconia e rabbia per quel periodo che non torna?

Oggi, dopo circa un decennio di precarizzazione della scuola, tagli indiscriminati e mass media disinformati, si naviga a vista. Sembrerebbe tutto perduto, ma il ministero non lascia nulla di intentato per porre rimedio a una disperazione dilagante: sta arrivando il nuovo concorso pubblico a cattedre nonché nuove tecnologie in grado finalmente di riportare merito e conoscenza tra tutte le componenti della scuola.

Non entro nel merito delle tecnologie.

Il concorso sarà in grado di stabilizzare circa 12 000 insegnanti; sembrerebbe un bel numero se non fosse che annualmente il ministero ne chiama, per coprire le classi, quasi dieci volte tanti: 116 000 (dati ministeriali 2009/2010). Saranno davvero così impreparati gli insegnanti che ogni anno vengono chiamati a portare scienza e conoscenza nelle classi? L’università, le SISS, i vari corsi abilitanti e formativi che questi hanno frequentato negli ultimi anni e superato con esami, uniche condizioni necessarie per riuscire a mantenere una posizione utile nelle graduatorie e lavorare nelle scuole, hanno davvero così poco valore da dover essere ulteriormente validati da un concorso? Perché non si provvede semplicemente a coprire tutti i posti vacanti annualmente disponibili e ad avviare una seria e credibile politica di rinnovamento della scuola?

E ancora: quale futuro avranno i decreti delegati e la partecipazione democratica nelle scuole? La regione Lombardia ci viene in aiuto nel cercare una risposta e ci apre le porte di una forte e decisa privatizzazione delle scuole, modello guardato con interesse anche dagli organismi ministeriali. Tuttavia il governo della scuola, soprattutto se di base, non può essere lasciato in mano a interessi di parte, ancorché nobili e generosi. Ovunque gli interessi privati hanno dimostrato i loro limiti e solo la società, in senso ampio e nobile, può essere in grado di intervenire e orientare il presente per progettare il futuro. In epoca di crisi il privato si chiude in se stesso; il pubblico rinnova, cambia, riforma in cerca di nuovi modelli sostenibili e credibili.

Per ultimo il tempo scuola, rimasto svuotato dopo le riforme Moratti e Gelmini: poche le progettualità rimaste in piedi, poche le disponibilità di intervento individualizzato o personalizzato, quasi nessuna la capacità progettuale in grado di raccogliere le richieste di didattica flessibile, apprendimenti interculturali, uso delle tecnologie, integrazione delle diversità.
Cosa rimane? Gli edifici scolastici... alcuni... quelli che ancora riescono a sopportare il peso degli anni e della scarsa manutenzione.

La società non aiuta più la scuola, la politica non pensa che al presente, le risorse non vengono allocate, ma non si può cedere sull’educazione e sulla formazione.

Bisogna riuscire a ripartire. Eccoli allora: le associazioni che continuano a stare a fianco degli insegnanti e a credere nel loro ruolo; il sindacalismo di base che, unico, ha dimostrato di essere credibile; l’aiuto e i contributi di tutti quegli insegnanti e dirigenti che dedicano tempo e passione e diventano un volano di aggregazione e nuove energie.

Non è il momento di lasciarci abbattere, ma è il momento di reagire con forza e decisione, dentro e fuori le scuole, non alla ricerca del tempo passato, oramai sepolto, ma di nuovi modelli in grado di ispirarsi alla tradizione per rispondere al presente. È necessario ricercare una risposta alla profonda crisi della conoscenza non solo nella didattica di classe, ma nell’organizzazione della scuola, del suo tempo e delle modalità della sua partecipazione nella società: tutto deve ripartire dagli insegnanti.