di Gianluigi Camera
Cinquant’anni fa fu approvata la legge istitutiva della Scuola Media Unica.
Pubblichiamo al riguardo la testimonianza di una esperienza vissuta di insegnamento.
Ho avuto la felice occasione di insegnare per tre anni nella scuola media ristrutturata dalla legge 31 dicembre 1962 n° 1859, all'atto del passaggio, oserei dire rivoluzionario, dal vecchio al nuovo Ordinamento.
L'a.s. ’63/64 costituì infatti la prima esperienza attuativa della nuova legge.
Una legge “calata dall'alto”, abbastanza sentita e auspicata dall'opinione pubblica e dalla cultura pedagogica, calata però su un corpo docente, quello della vecchia scuola, variamente schierato e abbastanza impreparato dal punto di vista didattico e della sensibilità sociale.
Nulla fu fatto, prima e dopo l'approvazione della legge per sensibilizzare e formare gli addetti ai lavori, nulla durante i primi anni di attuazione.
Secondo un noto principio omeostatico, la scuola, come ogni sistema complesso, in assenza di continui e mirati input innovativi riuscì spesso ad assorbire e a neutralizzare nel tempo la spinta innovatrice, come l'onda formata dal sasso nello stagno.
Provenivo da una esperienza decennale presso una buona scuola elementare della provincia di Torino, avevo condotto i miei alunni al traguardo della quinta.
Fruendo di una legge, la legge “Moneti” dei primi anni sessanta, che permetteva ai maestri laureati e abilitati di essere utilizzati presso la scuola media, ottenni l'incarico di lettere presso una nota scuola di Torino.
Una Media che potremmo ora indicare col nome di “classica” per distinguerla dalla scuola di “Avviamento al lavoro”; nella prima confluivano unicamente alunni selezionati attraverso un rigoroso esame di “Ammissione” da sostenere in aggiunta alla Licenza elementare, così importante da fare aggio sullo stesso esame di quinta: era cioè concesso agli alunni di quarta elementare di adire direttamente alla prima media previo il superamento della citata prova.
La Media “classica” era caratterizzata dallo studio sistematico del latino, sin dalla prima classe e costituiva, all'epoca, l'unica strada per il proseguimento degli studi presso la Secondaria di secondo grado e l'Università.
Si differenziava dalla parallela scuola di Avviamento al lavoro industriale o commerciale che aveva come traguardo l'inserimento lavorativo dei quindicenni.
Questo per dire che le famiglie del tempo erano costrette a decidere del futuro dei propri figli, a undici anni di età.
Vissi questo passaggio professionale con entusiasmo, convinzione e speranza. Mi veniva offerta l'occasione, prima impossibile, di vivere un'esperienza formativa di continuità didattica, culturale e umana a cavallo tra i due ordini di scuola.
Il nuovo ambiente era caratterizzato da una forte tradizione di serietà e autorevolezza, ancorato però ad una didattica tradizionale e ripetitiva, poco disponibile all'innovazione, forse anche per il fatto che l'Istituto viveva in un larvato stato di concorrenza con un'altra vicina Media “classica” che preparava gli alunni per uno dei più famosi Licei classici cittadini.
Vissi, inevitabilmente, qualche forma di diffidenza da parte dei colleghi ancorati, con alcune felici eccezioni, ad un tipo di didattica tradizionale. Si pensi, ad esempio che mentre le classi prime (anno ’63/64) seguivano la Riforma, le classi successive proseguivano fino all'esaurimento il vecchio Ordinamento. E tra i due gruppi di docenti esistevano, inevitabilmente forme più o meno evidenti di rivalità e contrapposizione.
Quando, in un Collegio docenti osai proporre l'esigenza di concepire l'insegnamento non come un semplice atto trasmissivo ma come un'esigenza di formare negli alunni un abito mentale volto a porsi domande di fronte alla realtà fisica o al mondo dei simboli, a “problematizzare” cioè la conoscenza, mi sentii rispondere da una battagliera collega di Matematica che occorreva non invadere il terreno altrui perché i “problemi” erano di esclusiva competenza della Matematica…
Molto mi giovò la comprensione e la considerazione di una Preside intelligente, proveniente anch'essa da una lontana esperienza di scuola elementare che mi accolse a braccia aperte e, proprio in considerazione della mia posizione di ex maestro, intravide un'opportunità per trasferire nella rinnovata Scuola media una didattica innovativa.
Occorre precisare che la Scuola elementare degli anni Sessanta possedeva una esperienza di attenzione al mondo dell'infanzia, e un buon interesse alla didattica, alla formazione, all'innovazione. I Programmi del Gentile erano stati sostituiti da quelli del ’45 e del ’55. Anche se in forma non generalizzata erano stati metabolizzate la forte influenza della didattica psicologica di Petter, le tecniche di Freinet e prima ancora la pedagogia democratica e socializzante di Dewey e l'ancoraggio ai Centri di interesse di Décroly.
Se non vado errato per la Scuola media precedente al ’62 vigevano sostanzialmente i Programmi “Bottai” del ’39, fatte salve le inevitabili modifiche di contenuti del dopo ventennio, incompatibili con la Carta Costituzionale.
Si trattava ora di aprirsi verso orizzonti e contenuti nuovi.
Mi fu facile introdurre presso i nuovi alunni, freschi di esperienze di Scuola primaria, il lavoro di gruppo, la ricerca, il giornalino di classe… Esperienze che oggi possono far sorridere e che rientrano nella routine quotidiana, ma che all'epoca erano considerate quasi di rottura per l'ambiente in cui lavoravo e che infine furono apprezzati dalla preside e accettate dai colleghi.
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