Dialetto, un patrimonio da salvare

di Mattia Ferraris

È stato detto da più di uno studioso che il dialetto è una lingua senza esercito, per significare il fatto che ogni dialetto che non è divenuto, col tempo, lingua nazionale non ha un’organizzazione statuale, e quindi un esercito alle spalle e non ha di conseguenza una dignità nazionale, pur rimanendo sostanzialmente una lingua. Il destino del dialetto toscano di Dante, Petrarca, Boccaccio è stato propizio: diventa lingua nazionale dal Cinquecento in avanti, ancor prima dell’unità d‘Italia, grazie ai linguisti e agli autorevoli scrittori che si sono succeduti nei secoli e che hanno usato quel dialetto originario nelle loro opere, invogliando le classi colte ad usarlo.

In realtà il popolo ha continuato ad usare il dialetto locale di ogni zona o città o paese (i paesi erano microcosmi e mondi a sé rispetto al paese vicino, di qui si spiegano le differenze di linguaggio a pochi chilometri di distanza). Solo dopo la seconda guerra mondiale, con l’istruzione generalizzata, con l’avvento della radio e soprattutto della televisione in ogni famiglia, la popolazione italiana ha imparato un linguaggio medio, superando le antiche divisioni dialettali.

In realtà nelle vallate bergamasche, cuneesi o venete o in molte parti dell’Italia meridionale, tanto per fare qualche esempio (ma il fenomeno è abbastanza diffuso anche altrove) si è continuato e si continua a parlare in dialetto spesso nei quaranta - cinquantenni ed oltre, e talvolta persino nelle nuove generazioni. Si è perciò verificato il fenomeno della diglossia. Ovvero questi soggetti parlano ufficialmente l’italiano nei rapporti formali, ma continuano ad usare il dialetto nativo nei rapporti informali e familiari. Questa è, secondo me, una ricchezza linguistico - culturale notevole.

Il tentativo poi di portare nella scuola il dialetto come materia opzionale o facoltativa è rimasto in gran parte inattuato, anche perché si è voluto dare una coloritura politica alla proposta. Ciò non toglie che si debba conservare, nel tempo, la cultura dialettale, cui sottende un mondo che sta sì scomparendo (si pensi che nel 1861 la popolazione era al 60% agricola e quindi dialettofona, oggi si è ridotta al 5-6%) ma che resta come patrimonio generazionale. Si pensi altresì che anche nelle classi popolari delle città, piccolo borghesi o operaie che fossero, il dialetto era strumento di comunicazione quotidiana. Ma anche nell’alta borghesia, vuoi per vezzo, vuoi per convinzione, il dialetto era molto diffuso.

Ora sta accadendo che il vernacolo è diventato strumento di comunicazione di minoranze ed è parlato sempre meno dai più giovani, ma mai come ora, si è visto un fiorire di dizionari, di raccolte di aneddoti, di aforismi dialettali o di proverbi; questo significa che si sente, a volte a livello inconscio, la necessità di salvare ciò che sta scomparendo.

Infatti, anche chi non parla il dialetto dovrebbe conoscere e rifarsi ad una tradizione ben radicata nel nostro popolo e in tutti i popoli, legata ad usi e costumi secolari, a quella che Braudel definisce la cultura materiale, intendendo tutto il complesso dei modi di vivere e di esprimersi quotidiano delle popolazioni (quali erano i loro riti e le loro usanze, come vivevano, come vestivano, cosa mangiavano, come viaggiavano, che strumenti usavano nella vita quotidiana ecc.).

Ecco perché oggi lo scrivere di dialetto (che è cosa molto più complessa che il parlarlo) è fare un’operazione storica, il riscoprire le nostre origini, non solo la documentazione di un passato recente o remoto, ma la scoperta della propria identità, della propria specificità in un mondo globalizzato ed indistinto. Ecco perché la scuola, le istituzioni, gli enti locali, le agenzie culturali in genere ed anche i singoli individui dovrebbero favorire questa operazione, prima che sia troppo tardi e, per usare una felice espressione piemontese di un noto libro di Luciano Gibelli "Dnans ch’a fàssa neuit" (prima che arrivi la notte)…