di Valeria Amerano
Ci andavamo a settembre, l'intero mese: il tempo del sole clemente e il cielo puro ma già lontano, che preludeva alla malinconia delle giornate brevi e all'inizio della scuola. Erano le estati del 1962, 63. Affittavamo un alloggio in via Garibaldi, all'ultimo piano, vicino alla farmacia. Le finestre e il balcone guardavano sulla via; la terrazza cui avevamo accesso, e che costituiva parte del tetto della casa, si affacciava sul mare. Di lì la mamma ci chiamava per farci rientrare dalla spiaggia.
Avevo sei, sette anni; mia cugina due più di me. Davanti a noi abitava un vecchietto macilento. Tra una finestra finta e una vera, la sera aspettavamo di vederlo girare con la sua camicia bianca fino ai piedi e la lunga berretta da notte col fiocco.
Soffocavamo il riso nella stupidità complice che solo l'infanzia conosce. Il vecchio si muoveva a piccoli passi in una luce fioca che ai nostri occhi appariva fiabesca, mentre era solo parsimoniosa, e rendeva alla casa, preclusa alla nostra curiosità, un'aura magica e segreta. Quando le gelosie si chiudevano sulla nostra fantasia, potevamo immaginare che arrivasse a tenergli compagnia qualche spiritello fatato. A quel tempo non avevo paura del mare. Nuotavo col mio salvagente giallo e rosso dietro lo zio che mi incitava. C'era poca gente in spiaggia, e Loano era un paese. Il silenzio permetteva di udire la voce dentro se stessi e gli umori degli uomini e del mare. Le poche botteghe segnavano la via di aromi e di ricordi. La pasticceria Bettoni emanava un profumo denso di burro, nocciole e cioccolata che era il sapore sontuoso dei suoi "Baci". Celesia era la ferramenta dove mia madre aveva comprato un paio di pinzette per togliermi (con successo) una lisca bifida piantata nella tonsilla. Gelmo, baffuto come un re di cuori, era il maestro insuperato dei gelati. La sera nel dehors del suo locale si avvicendavano cantanti di bassa stagione con le canzoni più gettonate dell'estate: "Noi siamo i vatussi, Con le pinne il fucile e gli occhiali, Guarda come dondolo, A Saint Tropez, Sei diventata nera..." Dalle locandine del cinema esplodevano le labbra e le curve di Brigitte Bardot, la sintesi erotica di quegli anni. Il suo fascino sprigionava l'invito della bellezza a una vita facile e pigra, il gusto della libertà, il sogno di sesso e ricchezza. Sul lungomare s'intrecciavano spigolosi suoni tedeschi ai familiari dialetti lombardi e piemontesi. Le donne portavano rumorosi zoccoletti con i tacchi a spillo, e in acqua usavano cuffie ricoperte di fiori di gomma per non bagnarsi i capelli.
Sono tornata a Loano dopo tanti anni di assenza. Ne avevo timore: non sapevo cos'avrei provato rivedendola e rivedendomi lì, dopo una vita, dopo altri mari... Credevo di soffrire. Ho provato un senso di leggerezza invece, di sollievo. M'è venuto incontro il posto vergine della memoria intatta, non ancora rigata di amarezze. Vi ho riconosciuto il luogo attraversato prima di tutte le sofferenze e le gioie lancinanti. La cittadina ligure restava nel mio cuore il posto sereno e ignaro dell'attesa. Il destino era lontano da quel porto: oltre la linea curva dell'orizzonte dove scivolavano le navi che avevo contato con gli occhi di bambina.
Se adesso era tardi per tornare indietro, allora sarebbe stato troppo presto per vedere avanti. Due buone ragioni per non poter odiare Loano, sospesa in un'area neutra di inconsapevolezza. Il paese era diventato una città: stipata di case, palazzine, negozi rutilanti, gente, veicoli e un nuovo grande porto; ma l'aria era la stessa, il venticello mite e asciutto come il refrigerio di un respiro amato sul collo. Ho camminato grata nell'aria che mi veniva incontro dai carugi e lungo la passeggiata dalla quale è quasi secondario ormai vedere, attraverso le file fitte di ombrelloni e le strutture di plastica, gonfiate per il divertimento dei bambini, il mare. Nessun ricordo amaro mi raggiungeva, non un angolo che mi ferisse coll'immagine di un'attesa insensata, una promessa tradita, un rancore covato. Ero salva sull'isola del loto.
Mi tornavano soltanto i ricordi buoni e senza spine (se non quella infitta nella tonsilla) delle vacanze dei primi anni 60: la febbre di vita nei fianchi burrosi delle donne, le prime casacche colorate degli uomini, il twist, i bisticci con mia cugina. Non avendo avuto figli, non ho altre infanzie da sovrapporre alla mia. Mia madre vacillava appesa al mio braccio, vecchia come il vecchio che avevo spiato da piccola, e adesso ero io il folletto che la guidava per le strade e l'accompagnava da Gelmo a prendere il gelato. Nel suo locale abbiamo visto le foto in bianco e nero dei divi dei nostri anni, passati di là a lasciare una briciola firmata della loro fama: Tognazzi, Walter Chiari, Celentano, Michele, Vianello, Toni Renis... Mia madre ha storto la bocca e levato un sopracciglio: "Erano tutti più giovani di me e sono quasi partiti tutti... Andiamo, va'..."
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