Giocavamo a nascondino

Giocavamo a nascondino, agli indiani, alla guerra, ai cow boy; eravamo madri, sorelle, spose, vivandiere di mocciosi sparpagliati nei prati di periferia o nelle case di campagna dei nonni; cucinavamo con fango e foglie, allestivamo botteghe dove vendevamo mazzi d'erba, tutoli e sassi per frutti e insalata.

Fingevamo di non guardare quello che si appartava per un bisogno - molesto per il tempo che rubava al gioco e goloso per chi lo spiava senza dirlo: una scoperta che aveva in sé il seme del segreto e la prima ebbrezza di un divieto violato.

Credevamo a befane e cicogne sebbene non vedessimo rapporti tra donne gonfie come mongolfiere e volatili coi fagotti appesi al becco.

Il principio della vita era il mistero che la scuola, la famiglia e la chiesa difendevano come l'estremo baluardo della purezza. (Imparavi ad annusare il peccato prima di sapere a che cosa servisse).

Intravedevi una spada in un pezzo di legno, una ballerina in una radice, il teatro delle marionette in una scatola da scarpe rovesciata: con quel che avevi inventavi qualcosa di simile a ciò che ti mancava.

Giocando ci guardavamo in faccia, imparavamo a leggerci, a intuire le intenzioni, ad anticipare i gesti: conoscendoci ci piacevamo, diffidavamo o ci prendevamo in odio. Schiaffi, spintoni e baci erano veri come gli accordi traditi, i patti rispettati, le amicizie fondate; soldatini, pupazzetti o figurine dati in pegno a siglare promesse serie come la felicità e le offese dei bambini.

Non tutti avevamo la televisione; pochi ancora il telefono. Si andava dal vicino, per la puntata dello sceneggiato e per sapere che al paese il nonno era finito d'urgenza all'ospedale. Non era di moda regalare il cane per Natale o per la promozione. Si riceveva l'orologio, la penna Auretta e alla fine delle elementari magari il transistor o il magnetofono Geloso.

Eravamo nati negli anni Cinquanta, al primo capriccio accusati dai nostri genitori delle mille fortune toccateci in sorte rispetto a loro, figli malmenati dalla guerra.

Oggi siamo i nonni dei bimbi che vanno a scuola col telefonino in tasca, ci insegnano a navigare in internet e a moltiplicare gli amici virtuali, sanno da dove entrano ed escono i bambini e non scambiano i preservativi per palloncini caduti dal cielo sul marciapiede.

Viaggiano seduti alla scrivania, connettono sfiorando superfici sensibili come piante carnivore, camminano con le orecchie occupate in un eterno altrove, s'intrattengono in solitudini che non sono più quelle di un libro aperto fra le ginocchia a immaginare, comunicano a distanza senza pause pensose né emozioni, senza sguardi diretti chiari come abbracci o insulti.

Siamo la generazione che ha dovuto crescere da sola, correre, ripudiare le abitudini per colmare le distanze, adeguarsi alla comodità della tecnologia con lo sforzo di cancellare e ricominciare da capo.

Ci sentiamo solo figli adottivi di un'era che ci supera appena la raggiungiamo. Non siamo infatuati né nostalgici, semplicemente sappiamo com'era prima dell'assalto.

Ricordiamo la lentezza delle lettere, i segni lasciati dal passaggio del postino in una vita, l'attesa di una telefonata all'apparecchio fisso, l'affannosa ricerca di un telefono pubblico, l'impossibilità di rivedere un film amato, le laboriose consultazioni in biblioteca.

Guardiamo i nostri ragazzi risucchiati da un video, ascoltiamo il loro linguaggio, osserviamo come si vestono. Sono loro gli "stranieri" più vicini nei quali non riusciamo a riconoscerci.

Valeria Amerano