Il 14 febbraio scorso l’Associazione Scuole Autonome del Piemonte (ASAPi) ha festeggiato i suoi 10 anni con un convegno dedicato alla scuola media, invitando al tavolo di confronto Andrea Gavosto, Direttore della Fondazione Agnelli, che a questo ordine di scuola ha dedicato il suo ultimo rapporto (Fondazione Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2011, Laterza, Bari, 2011).
A 50 anni dalla sua istituzione, la nostra “scuola di mezzo” non regge il confronto internazionale, è criticata dagli addetti ai lavori e gode di un credito bassissimo nell’opinione comune.
Le rilevazioni TIMSS 2003 e 2007 mostrano un calo del 23% dei risultati in matematica e del 21% in scienze rispetto a quelli raggiunti dalla stessa coorte di studenti in IV elementare. Le rilevazioni INVALSI evidenziano un picco di insuccesso in prima media e dalla contestualizzazione dei dati emerge che il gap di apprendimento fra i ragazzi legato alla provenienza socioculturale si rafforza vistosamente in questi anni. Le evidenze testimoniano che la garanzia d’accesso all’istruzione, avviata con la nascita della scuola media unica, non si traduce di fatto in garanzia di successo formativo.
Tuttavia, poiché parlar male della scuola italiana sembra diventato uno sport nazionale e poiché la ricerca della Fondazione Agnelli è stata presentata dalla stampa come l’ennesima bocciatura della nostra secondaria, penso sia utile richiamare le analisi del rapporto e restituire il giusto valore alle conclusioni presentate dal gruppo torinese.
Pur confermando i molti dati di crisi di questo segmento di istruzione, infatti, la Fondazione Agnelli ci riporta l’immagine di una realtà complessa dove le responsabilità sono allargate e i rimedi possibili chiamano in campo l’intero sistema nazionale e le scelte di politica scolastica degli ultimi decenni.
Ho partecipato al dibattito organizzato dall’ASAPi con molto interesse: la scuola media è stata per me la “prima” esperienza di scuola, quando ancora dovevo entrare alle elementari, già ascoltavo mia madre, professoressa alla scuola media al paese, discuterne con la nonna, maestra in pensione. Mamma raccontava dei suoi ragazzi “difficili” (insegnava in una delle sezioni maschili) e degli scontri in consiglio di classe per evitare loro l’ennesimo insuccesso, oppure si confrontava su come coinvolgerli per ottenere i migliori risultati possibili. Quando trent’anni dopo, alla fine degli anni novanta, sono entrata alla scuola media come preside, mi è capitato spesso di ripensare ai racconti di mia madre e di operare automatici confronti fra la media dei miei ricordi e la nuova realtà. Proverei a partire da quei confronti che credo aiutino a capire quanto e come sia necessario rinnovare oggi la nostra scuola.
I ragazzi che entrano alla scuola media nel 2012 continuano ad essere organizzati in gruppi classe forse solo un po’ meno numerosi di un tempo (ora 25/28 studenti, allora fino a 35) e ospitati in aule con i banchi ordinati in file rivolte verso la cattedra e la lavagna e continuano a studiare su libri di testo che, al di là delle previsioni normative, sono usati solo nella forma cartacea. Eppure i ragazzi sono molto cambiati, non solo per la presenza di studenti stranieri e disabili un tempo assenti, ma per le esperienze e gli interessi di cui sono portatori e che caratterizzano la loro vita fuori della scuola, troppo distante da quanto viene loro proposto in classe. I dati della Fondazione ricordano che i nuovi media rappresentano per i pre-adolscenti non solo le principali fonti di apprendimento informale fuori della scuola, ma anche lo strumento prevalente attraverso cui soddisfare il bisogno di socializzazione e di identità, aspetti fondamentali in questa fase evolutiva. L’estraneità che la nostra scuola (e non solo la scuola media purtroppo) e i nostri insegnanti dimostrano nei confronti delle tecnologie contribuisce a smorzare l’interesse dei ragazzi verso il mondo scolastico che essi percepiscono come distante da sé, e di fatto la scuola rinuncia a sfruttare le enormi possibilità che i nuovi media potrebbero offrire per sostenere l’apprendimento e la motivazione degli studenti.
La struttura amministrativa che presidia il sistema scolastico è l’aspetto di maggior novità che si percepisce a livello organizzativo. Le scuole autonome esercitano la funzione di istruzione per conto del Ministero attuandone gli indirizzi sulla base di un piano dell’offerta formativa che rappresenta l’identità di istituto. Ciò dovrebbe comportare un confronto stretto dentro la scuola sullo stile di insegnamento adottato e sui risultati di apprendimento attesi e presuppone uno scenario nazionale chiaro e politicamente condiviso. Tacendo sulla confusione e la precarietà degli indirizzi nazionali, dentro la scuola l’autonomia è percepita soprattutto come aumento del carico burocratico e delle riunioni e si traduce nella fatica del Dirigente Scolastico che si sente l’unico responsabile dei risultati del POF, chiamato a render conto dei problemi di fronte all’utenza e all’amministrazione. Quando negli ultimi anni raccontavo ai miei genitori dell’enorme quantità di tempo che trascorrevo a gestire problemi, anziché a progettare e verificare la proposta formativa della mia scuola, papà ricordava che la preside della mamma arrivava da Vercelli con la corriera delle 10,00 e ripartiva con quella delle 13,00.
Molte cose sono rimaste uguali ad allora e fra esse il sistema di reclutamento e lo sviluppo di carriera del personale. Se qualche timida innovazione si è vista in merito all’acquisizione dell’abilitazione per il ruolo (la stagione della SISS è stata bruscamente interrotta dalla Riforma Israel e il nuovo modello di formazione universitaria con una specializzazione biennale dopo la laurea specialistica è ancora in fase di progetto), il modello per la chiamata dei supplenti prevede lo scorrimento di lunghe graduatorie provinciali e di istituto dette ad esaurimento perché destinate a sparire, ma che di fatto ogni anno si rimpinguano di nuovi aspiranti professori rassegnati a una lunga carriera da precari. Proprio il numero dei precari rappresenta uno dei tristi primati della scuola media, insieme all’età avanzata dei professori. Il rapporto ci informa che il 20% dei docenti della scuola media ha un contratto a tempo determinato e considerato il complesso meccanismo di reclutamento dei supplenti solo il 17% di essi è riconfermato nella stessa scuola l’anno successivo. È evidente che questa discontinuità, unita alle magre prospettive di carriera, contribuisce a demotivare la categoria più di altre.
Anche sul fronte della formazione la situazione è desolante seppur comune a tutti gli ordini di scuola. Il Contratto Nazionale di comparto dedica il Capo VI al diritto-dovere di formazione definendola “leva strategica per lo sviluppo professionale”, ma di fatto il “diritto alla formazione” trova ostacoli nella difficoltà di sostituzione dei docenti in classe per cui essi spesso rinunciano a partecipare ai seminari formativi su pressione dei presidi stessi. Quando invece è l’amministrazione a voler formare i propri docenti, il principio del “dovere alla formazione” si scontra con la volontarietà della partecipazione che finisce per coinvolgere solo chi ne avrebbe meno bisogno. Il Piano annuale di formazione, deliberato dal collegio dei docenti, non costituisce, infatti, un vincolo alla partecipazione alle iniziative autorizzate, salvo che esse siano previste dal Piano delle Attività della scuola come attività funzionali (40 + 40 ore annue). Sull’entità dei finanziamenti alle scuole dedicati alla formazione (il finanziamento per le attività di formazione delle scuole supera raramente i 1 000 euro annui) taccio per pudore.
Lo stimolo al miglioramento professionale non trova sostegno neppure in un modello di valutazione dell’insegnamento o in un modello premiante di qualche genere. I timidi tentativi messi in campo dall’amministrazione, corretti o meno che fossero nel loro impianto, sono stati tutti abortiti dal sistema ancor prima di trovare una verifica.
Eppure, come ci ricorda il rapporto della Fondazione Agnelli, che dedica al profilo psico-sociologico degli adolescenti un intero capitolo, i ragazzi della scuola media sono difficili da gestire: debbono confrontarsi con trasformazioni fisiche e contestuali tempeste ormonali, con cambiamenti cognitivi e immaturità emotiva che ne influenzano i comportamenti e le modalità di relazione e di apprendimento. Occorre riconoscere che assolvere il compito di istruzione e formazione dei ragazzi dell’età di mezzo è un compito complesso che richiederebbe chiarezza di idee e coerenza di risposte e che fa emergere in modo più evidente i limiti del nostro sistema.
Il “crollo” dei risultati della scuola media non può essere letto solo come elemento di crisi del modello di settore. Una serie di problemi strutturali del nostro sistema, che il modello dell’autonomia avrebbe potuto compensare, ma che ha invece contribuito ad accrescere, hanno forti responsabilità in quel fallimento. Chiunque si misuri oggi con l’iscrizione di un figlio alla scuola media si trova di fronte a soluzioni organizzative molto variegate che spesso comportano vistose differenze di formazione fra una scuola e l’altra, con una forte varianza anche all’interno della stessa scuola fra una classe e l’altra. La questione della “gestione unitaria” dell’istituto, che dovrebbe determinare l’assunzione di un unico modello educativo di riferimento e di comuni criteri di formazione delle classi, si scontra con l’endemica carenza di personale direttivo (in Italia oltre il 30% delle scuole non ha un preside di ruolo e con il sistema delle reggenze oltre il 50% delle scuole condividono lo stesso preside) di ruolo e spesso determina una “disattenzione” rispetto al tema della composizione dei gruppi classe che non può che avere conseguenze nefaste sui risultati finali (è provato che in gruppi classe mal assortiti si creano circoli viziosi di demotivazione che influenzano i risultati finali per cui l'eterogeneità di composizione e il presidio su questo tema è assolutamente fondamentale).
Il DPR ‘89/2010, inoltre, ha irrigidito il modello organizzativo della scuola media imponendo il ritorno a una netta distinzione fra corsi a tempo normale e a tempo prolungato che di fatto ha sancito la fine di ogni forma di flessibilità, se si esclude quella derivante dal recupero moduli per effetto della riduzione dell’unità oraria di lezione, modello peraltro ormai residuale dopo i richiami del ministro Gelmini. Un irrigidimento devastante per una scuola dove sarebbe essenziale poter contare su un modello flessibile per proporre una didattica attiva ed efficace per i pre-adolescenti.
Anche il valore della continuità sembra ricordare il tempo delle gride manzoniane: è raccomandata nella premessa dei programmi della media del ’79 e poi ancora in quelli della Primaria dell’85 e negli Ordinamenti della materna del ’91. Nel 1992 la circolare 339 richiama le scuole dell’obbligo a una serie di modelli di funzionamento atti a favorirla, ma di fatto l’assenza di continuità è ancora uno dei problemi della nostra scuola che la presenza del modello dell’istituto comprensivo non sempre riesce a risolvere.
Per concludere, non ritengo che occorra intervenire sul modello di scuola media. La secondaria di primo grado non è certo tutta “da rifare” e anzi, in molte realtà ha dimostrato di saper contrastare le tante difficoltà esistenti. Occorre invece puntare su tre dimensioni di lavoro. In primo luogo, sarà necessario valorizzare la responsabilità individuale e delle scuole attraverso un serio sistema di valutazione che, partendo dalla lettura del contesto, riesca ad individuare elementi di criticità e di merito rispetto all’azione degli istituti e dei gruppi di insegnamento. In secondo luogo occorrerà motivare (o ri-motivare i docenti) perché solo docenti davvero motivati possono reggere la sfida del miglioramento. Ciò non significa solo incrementare gli stipendi, ma anche offrire agli insegnanti opportunità di sviluppo professionale e di carriera, magari pensando a un collegamento con l’università come avviene in Francia. In ultimo occorrerebbe ririfondare il ruolo docente sostenendo un modello di insegnamento che valorizzi la relazione dentro la classe e fra gli insegnanti e gli allievi attraverso percorsi di formazione ad hoc, ma soprattutto ripensando le scuole come centri risorse capaci di far maturare senso di appartenenza in chi ci lavora e in chi le frequenta. A questo proposito concluderò raccontando cosa mi disse mio nipote Tommaso, un paio di anni fa, quando gli chiesi della sua esperienza di un anno di studi negli Stati Uniti dove aveva frequentato la IV liceo e ritrovato una passione e un interesse per la scuola che sembrava aver perduto durante le superiori: “Zia, ti dico solo che il mio docente di matematica era l’allenatore della mia squadra di calcio e anche quello che mi prestava la bicicletta”.
Lorenza Patriarca
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