La legge 104 del ’92 porta a compimento il lungo e contrastato processo di integrazione degli alunni con disabilità. La normativa successiva, pur disciplinando e rendendo esecutivi i principi fondanti della legge stessa, sembra perdere, almeno in parte, la carica innovativa del ventennio ’70 – ’90 che aveva fatto dell’Italia un interlocutore autorevole e trainante della cultura dell’handicap in Europa.
Uno sguardo retrospettivo all’ultimo ventennio, fino ai giorni nostri, ci dà la percezione di attuazioni realizzate a volte più sulla carta che non in termini di esecutività concreta, in quanto gli organismi a vario titolo responsabili dell’integrazione non sempre dimostrano di avere la piena consapevolezza degli ambiti di rispettiva competenza.
I disabili non vivono solo nella scuola e necessitano pertanto di una serie di interventi, da quelli riabilitativi a quelli assistenziali, da quelli relazionali a quelli prelavorativi, che dovrebbero vedere impegnati in modo coordinato l’Amministrazione Scolastica come le ASL, gli Enti Territoriali come le Associazioni di Persone Disabili.
Le collaborazioni fra i soggetti menzionati, esplicitamente previste dalla Legge 104, assumono nel tempo denominazioni diverse (Intese, Accordi di Programma, Sistemi Integrati di interventi e servizi sociali…) e caratteristiche coerenti con le vocazioni dei vari territori, ma incappano non di rado in gravi difficoltà: la sistematica carenza di fondi, il carattere di volontarietà dei contributi che dovrebbero essere erogati seppur “nel limite delle disponibilità di bilancio”, la precarietà degli organici, le disomogeneità applicative delle norme, sono state e sono tuttora all’origine di latitanze, di prestazioni non coordinate, di vuoti di potere.
I GLIP, gruppi di lavoro interistituzionali provinciali, presieduti da un rappresentante dell'Amministrazione Scolastica, avrebbero il compito di far convergere in modo coerente gli impegni di intervento siglati dai vari organismi responsabili, ma basta l’indisponibilità economica di uno dei firmatari, la mancata adesione da parte di un comune facente parte della rete territoriale per vanificare un progetto.
Per questi motivi troppo spesso gli sforzi della scuola non sono sufficienti a far sì che le finalità dei vari firmatari dell’intesa mirino al vero punto nodale: armonizzare, per ogni soggetto disabile di un determinato territorio, gli interventi relazionali, formativi scolastici ed extrascolastici, riabilitativi, assistenziali, di formazione al lavoro.
Le “Linee Guida” emanate dal Governo nel 2009, per quanto mirate a salvaguardare in linea di principio le politiche inclusive in questa stagione di tagli indiscriminati, danno tuttavia l’impressione di gravare di un carico insostenibile le sole istituzioni scolastiche, costrette a equilibrismi di ogni genere tra organici decurtati, orari capestro, concentrazioni improponibili di soggetti disabili in determinati indirizzi e in determinate classi.
Senza voler cedere al pessimismo, occorre mettere in luce, senza finzioni e senza retorica, alcuni problemi nodali che, se non vengono risolti in una rigorosa prospettiva di sistema, rischiano di mettere a repentaglio, nelle singole scuole, la qualità del processo di integrazione, la motivazione dei docenti, la fiducia delle famiglie, l’impegno di tutti coloro che si spendono per un miglioramento delle strategie di integrazione.
Menzioniamo quelli che ci appaiono tra i più critici: pur comprendendo che possono apparire come semplici tasselli di una struttura composita e multifattoriale, sono indubbiamente quelli che incidono più pesantemente sul normale svolgersi delle attività formative all’interno di una scuola.
Docenti curricolari e di sostegno
Mentre nella scuola dell’infanzia e nella primaria le figure che gravitano su una classe arrivano in generale a impostare un corretto rapporto di collaborazione, occorre purtroppo riscontrare, nei docenti curricolari della secondaria di primo e soprattutto di secondo grado, una diffusa deresponsabilizzazione nei confronti dei soggetti disabili inseriti nelle rispettive classi, come se la competenza degli stessi gravasse unicamente sui docenti di sostegno. Troppo spesso questi ultimi vengono percepiti come meri vigilanti e tutori degli alunni disabili e non come contitolari di classe, così come prescrive la normativa.
Anche in istituti che vanno per la maggiore non è infrequente lo spettacolo, non certo edificante, di ragazzi disabili che passeggiano per i corridoi, scortati da insegnanti demotivati e come rassegnati al ruolo di “balie”, per quanto regolarmente abilitati all’insegnamento e in possesso per di più di un diploma biennale di specializzazione. Non è infatti raro il caso di insegnanti curricolari, in particolare di quelli degli indirizzi più impegnativi, che considerano doveroso far lezione a “quelli che non hanno difficoltà a capire” e che ricorrono ad ogni possibile escamotage per non essere disturbati dalla presenza degli alunni con disabilità, ai quali non soltanto non consentono di realizzare le condizioni minimali di un apprendimento in classe, ma neppure facilitano quella “socializzazione in presenza” che rappresenta il gradino più basso dell’integrazione. Da qui la concentrazione abnorme e innaturale di soggetti disabili negli istituti professionali, nei quali l’insegnamento/apprendimento si traduce più facilmente in strategie operative.
Rapporti con le famiglie
Secondo alcuni studiosi l’insegnante di sostegno dovrebbe connotarsi come figura di raccordo: tra la famiglia e la scuola, tra l’alunno disabile, i compagni, gli insegnanti curricolari e gli organismi operanti a favore dell’handicap, sia all’interno dell’istituzione scolastica, sia in un contesto territoriale più vasto.
Non è questo un compito facile per un docente il cui ruolo, troppo spesso sottovalutato, dovrebbe mirare ad imprimere un carattere di omogeneità al sovrapporsi di interventi non coordinati e non di rado contraddittori.
I genitori vengono istituzionalmente - e giustamente - riconosciuti come responsabili primari delle scelte riguardanti il presente e il futuro dei figli e in particolare della facoltà di richiedere o meno la certificazione dell’handicap, di individuare una scuola “inclusiva”, di scegliere l’indirizzo successivo al ciclo dell’obbligo, di avallare una valutazione che garantisca la validità giuridica del titolo di studio o che, in alternativa, si fondi unicamente sul Piano Educativo Individualizzato in presenza di gravi carenze sul piano cognitivo.
Ma non pochi problemi risiedono nelle frequenti e pressanti interferenze da parte di alcune famiglie in quelli che sono gli interventi didattici dei docenti curricolari e di sostegno.
A fronte di numerosi casi di scelte formative condivise e di aiuto concreto nel mettere in luce, a scopo orientativo, aspetti inediti della personalità dei figli, si determinano a volte discordanze di vedute quando non veri e propri conflitti di competenze. Si tratta spesso di atteggiamenti invasivi che si manifestano sotto forma di critica sistematica ai docenti, considerati meri esecutori di programmi elaborati in altre sedi, da esperti privati che ignorano la realtà concreta del contesto scolastico con le sue esigenze, le sue strategie, i suoi limiti strutturali, le sue carenze di organico e di risorse materiali.
“Mio figlio ha l’intelligenza per fare tutto quello che fanno gli altri…; ha la capacità di riuscire: se non impara è colpa degli insegnanti..” ; “La scuola non lo capisce, lo sottovaluta…”; “L’associazione di cui facciamo parte ha tracciato per lui un piano e la scuola si rifiuta di seguirlo…”.
Il dialogo assume connotazioni critiche quando la scuola viene percepita come un interlocutore poco autorevole, quando l’alunno disabile s’impone come oggetto esclusivo e privilegiato dell’intervento scolastico, mentre viene pressoché ignorato quell’humus di rapporti tra pari al cui interno dovrebbe potersi sviluppare la sua personalità.
E dire che la presenza istituzionale dei genitori nel gruppo di lavoro preposto all’elaborazione del Progetto Educativo Individuale è stata studiata per personalizzare l’intervento didattico e per calibrarlo sul soggetto, conferendogli concretezza ed efficacia.
Rapporti con gli operatori socio – sanitari
L’autorità governativa ha ripetutamente avvertito la necessità di definire il ruolo e le competenze degli Operatori Socio – Sanitari facenti capo alle ASL in ordine al problema della disabilità.
Dal D.P.R. del 1994 all’Intesa Stato – Regioni del marzo 2008, peraltro non menzionata nelle Linee Guida Ministeriali del 2009, si mira a correggere alcune storture, in particolare la separatezza delle Unità Multidisciplinari delle ASL rispetto al contesto scuola e, in taluni casi, la frettolosità con cui vengono da queste redatte le Diagnosi Funzionali, tanto da determinare da un lato una iperproduzione di certificazioni di handicap e dall’altro un’individuazione di disabilità limitata ai casi più gravi ed eclatanti.
Opportuno dunque il richiamo, rivolto alle singole équipes di esperti socio - sanitari, ad attenersi al modello ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento) elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e ispirato alla logica della descrizione non del solo deficit, ma anche e soprattutto delle potenzialità e delle risorse positive su cui costruire, per ogni soggetto, un progetto educativo che guardi al futuro.
Da quanto sopra discende l’esigenza che la Diagnosi Funzionale debba connotarsi come uno strumento di indagine non statico ed ultimativo, ma atto a sottolineare ogni aspetto evolutivo in risposta ad interventi educativi mirati: non è pensabile, come purtroppo spesso avviene, che un soggetto con disabilità approdi alla scuola secondaria di secondo grado con una diagnosi funzionale redatta nella scuola primaria e successivamente non riveduta!
All’Unità Multidisciplinare dell’ASL, formata da specialisti e operatori che intervengono per quanto di loro competenza (neuropsichiatri e/o psicologi, logopedisti e/o fisioterapisti…) viene richiesto in modo particolare di interagire con gli insegnanti, confrontandosi sui problemi reali dei soggetti disabili in rapporto alle risorse e alle criticità delle scuole.
Eppure troppo spesso, soprattutto in territori extraurbani, interi consigli di classe sono ancora oggi costretti ad accedere alla sede dell’ASL di competenza, spesso notevolmente decentrata, per confrontarsi su aspetti cognitivi o comportamentali di soggetti per i quali hanno dovuto “inventarsi” competenze che non sarebbero di loro pertinenza.
Il compito degli operatori socio - sanitari e dei rappresentanti degli Enti Locali deve poter consistere in un’interazione costante e non episodica con la scuola, affinché per ogni soggetto con disabilità possa essere tracciata una mappa di bisogni socio/comunicativi e relazionali, riabilitativi, di avviamento al lavoro, di integrazione ludico/artistica, se del caso di assistenza familiare ed economica: una mappa che consenta di elaborare per ciascuno un progetto di vita realizzabile, coerente al suo interno e mirato ad una crescita effettiva, calibrata sulla sfera vasta e composita delle componenti dell’intera personalità: cognitive, affettive, relazionali, sociali, lavorative.
In particolare ogni soggetto deve poter essere attrezzato a gestirsi sfruttando ogni possibile spazio di autonomia da lui conquistata: non si tratta tanto di assisterlo a vita, quanto piuttosto di aiutarlo costantemente a trovare le risorse necessarie ad affrontare i problemi dell'esistenza in relazione a quelle che sono le sue potenzialità.
“Pensami adulto”. È un monito che Mario Tortello, educatore e giornalista, deceduto nel 2001 dopo essersi speso per anni a favore dell’inserimento dei disabili, rivolgeva agli insegnanti, alle autorità scolastiche e agli operatori esterni, allo scopo di non ridurre ad una visione scolasticistica i fattori che concorrono a costruire un’intera prospettiva di vita.
Lia Ferrero
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