Ricorre quest'anno il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Sarà bene fare un’analisi più fredda e meno retorica di quanto ci ha tramandato un certo patriottismo scolastico, che pure ha avuto il merito di aver educato intere generazioni all’amor di patria.
Aveva ragione Massimo D'Azeglio, all'indomani della proclamazione del regno d'Italia ad esclamare: «Ora che l'Italia è fatta, bisogna fare gli italiani».
A 150 anni dall'Unità la frase è ancora valida, considerato che vari eventi storici (nel corso degli anni il separatismo siciliano, l'azionismo sardo, i moti dell'Alto Adige, il separatismo leghista, tanto per fare qualche esempio) stanno lì a dimostrarlo. Per non parlare del particolarismo dei nostri comuni, che, se da una parte sono una risorsa, dall'altra creano vecchi municipalismi e visioni politiche limitate.
Non parliamo poi delle Regioni, create nel 1970, e non ancora mature oggi, a mio avviso, per un serio federalismo.
E non ha torto Denis Mack Smith quando dice che l'Unità d'Italia è stata possibile per una serie di coincidenze fortunate: interesse della Francia di creare uno stato satellite in funzione antiaustriaca e di contrappeso agli inglesi nel Mediterraneo, interesse dell'Inghilterra per l'impresa dei Mille in funzione antiaustriaca e antifrancese, interesse infine di casa Savoia, come da tradizione, di espandersi nella Penisola.
E poi avvennero fatti imprevedibili per lo stesso Cavour, che a Plombières si era limitato a trattare un'Italia che comprendeva Piemonte, Lombardia e Veneto e tutt'al più una zona limitata dell'Italia Centrale, segretamente sperando nel successo della politica delle annessioni.
Questo non vuol dire che l'Unità d'Italia non fu utile e necessaria, anzi promosse la penisola al rango di grande potenza europea e superò le vecchie divisioni che duravano da secoli, ma è interessante analizzare il modo, sia pur fortunoso, con cui l’Italia fu fatta.
Il rapporto Stato-Chiesa fu una delle grandi questioni del Risorgimento e continuò ad esserlo per anni ed ancor oggi lo è, sia pure in modo meno drammatico. Non dimentichiamo, in primis, che l'unità d'Italia fu anche il risultato di un atteggiamento laico ed anticlericale (Garibaldi era gran Maestro della Massoneria nel 1864, come lo era stato Costantino Nigra nel 1859, Mazzini in più di una circostanza si dimostrò filomassone e Cavour non era insensibile alle istanze portate avanti dalle Logge) atteggiamento ideologico che fu alla base delle operazioni che portarono alla «liquidazione» dello Stato Pontificio. La stessa formula cavouriana «Libera Chiesa in libero stato» non fu accettata dalle gerarchie ecclesiastiche ed interpretata nel senso che «la Chiesa è libera solo nell'ambito delle leggi dettate dallo stato».
Sul potere temporale non dimentichiamo però quel che disse Cavour: «Il Papa sarà molto più indipendente e potrà esercitare la sua azione in modo più efficace, quando, abbandonata la potestà temporale, avrà sancito una pace duratura sul terreno della libertà». Lo stesso Giovanni XXIII, riflettendo sulla perdita del potere temporale, la riteneva un'opera provvidenziale perché liberava la Chiesa dalle pastoie e dalle incombenze profane inerenti la gestione politica e militare di uno stato.
Tanto è vero che poi Pio XI, dopo varie fasi di avvicinamento Stato italiano-Chiesa, poté arrivare ad una formula più chiara e più consona, che venne poi ripresa nell'art. 7 della Costituzione repubblicana «la Chiesa e lo Stato sono, ciascuno nel proprio ambito, indipendenti e sovrani».
Parlando dei Patti Lateranensi e in particolare di Mussolini è bene ribadire che Pio XI non disse, come comunemente ripete una certa vulgata, «l'uomo della Provvidenza», ma «l'uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare»; infatti sarebbe potuto essere, per ipotesi, anche un altro personaggio politico.
Il contrasto cattolici-laici è stato uno dei problemi del Risorgimento. Infatti tutta l'azione politica e patriottica, pur meritevole sul piano dei singoli, partiva da una visione estremamente laica, direi laicista, derivata dall'esperienza della Rivoluzione francese e dalla concezione statuale accentratrice napoleonica; determinò come conseguenza l’esclusione dei cattolici per anni, fino al patto Gentiloni (1911), dalla politica attiva, creando altresì un vuoto di rappresentanza gravissimo per gli equilibri democratici, tenuto conto anche del fatto che la religione cattolica era predominante nel Paese.
Infatti, tranne casi sporadici come quelli dei cosiddetti cattolici-liberali tipo il Rosmini, il Manzoni, il Tommaseo o il Faà di Bruno, i cattolici non erano ancora storicamente maturi per capire che la religione poteva conciliarsi con i principi liberali moderati.
Faccio tutte queste considerazioni per sgombrare il campo da troppe speculazioni, inesattezze, strumentalizzazioni e da troppe retoriche sull'argomento "Unità e Chiesa", che in Italia è stata più laboriosa e più complessa che altrove per il fatto stesso della presenza della sede della Chiesa cattolica.
Poi c’è un’altra considerazione: gli uomini che hanno fatto il Risorgimento. Quel periodo ha avuto grandi figure; sulle altre ricorderei soprattutto Camillo Cavour, un politico di razza, che a 22 anni era già sindaco di Grinzane, sia pure non eletto dal popolo, ma nominato; abile stratega delle dinamiche parlamentari, acuto osservatore della politica inglese e delle esperienze estere, realista e pragmatico a differenza di Mazzini, che fu sì teorico dell'idea repubblicana, ma troppo astratto e visionario, lontano dalla realtà politico-sociale di quel momento storico e facilmente accusabile di mandare i giovani a morire per scopi nobili, ma irrealizzabili.
Cavour fu l'unico che vide la politica come ampio respiro europeo e come prospettiva del futuro, e, nel quadro dinamico di nuove alleanze, seppe sfruttare la paura della borghesia nei riguardi del radicalismo mazziniano e far buon viso a cattivo gioco di fronte all'avventura garibaldina, mentre Vittorio Emanuele II, "re galantuomo", ma anche grande mediatore tra Garibaldi e Cavour, completava l'opera con l'incontro di Teano.
Garibaldi fu indubbiamente coraggioso e nella sua impresa dei Mille anche fortunato, ma anche permise (e forse favorì) atti di violenza come la repressione di Bronte, in Sicilia, su soggetti che non avevano altra colpa che la difesa di una popolazione inerme.
Figure minori, anche se significative, furono Gioberti e Cattaneo, il federalista cattolico e il federalista laico; propugnavano idee irrealizzabili in quelle contingenze storiche e l’idea giobertiana di un’Italia federale sotto la presidenza del Papa, cadde ben presto.
È stato detto: il Risorgimento è stata opera di élites e di minoranze (Gramsci in testa); questo è vero, ma allora non poteva che essere così; d'altra parte dopo il 1861 e fino alla riforma Depretis (che aumentava leggermente la base elettorale) votava solo una minima percentuale di cittadini uomini (1,9%) e il primo parlamento italiano era composto da 85 nobili, 28 ufficiali e/o militari, 72 notabili e 52 professori universitari.
Bisogna arrivare al 1882 per avere il primo deputato operaio (Antonio Maffi) e a Giolitti per vedere realizzato il suffragio universale maschile; contava solo il censo e la partecipazione democratica era limitata.
Anche se poi, analizzando la situazione sociologica e storica dei decenni successivi, si constata che la sostanza non cambia, pur allargandosi la base elettorale; ancor oggi le minoranze (intese come élites dei partiti) continuano a far la storia, ma devono, se non altro, tener conto della volontà del popolo e della maggioranza.
Un altro errore fu di imporre lo Statuto albertino a tutto il resto d'Italia, senza tener conto della nuova realtà di territori con tradizioni diverse, di stroncare il brigantaggio, non con interventi articolati e mirati, ma sbrigativamente con la legge Pica (1864); di aver considerato il Sud come terra di conquista fino ad arrivare al controllo giolittiano, tramite i prefetti, della realtà meridionale, e, anche al fine di favorire l'iniziale decollo industriale del Nord, a proteggere clientele e potentati locali legati al vecchio modo di far politica.
È vero che probabilmente la proposta Minghetti di decentramento (una certa autonomia territoriale di consorzi di province) avrebbe nuociuto alla appena raggiunta unità, ma è anche vero che l'eccessivo accentramento portò i romani a considerare "buzzurri" i piemontesi e i piemontesi a considerare "terroni" gli italiani oltre Roma, per non parlare dell'isolamento presunto o veritiero di altre zone rispetto all'autorità centrale.
Così, ad un secolo e mezzo di distanza, rimaniamo con i nostri problemi irrisolti, con il divario tra Nord e Sud, con la criminalità organizzata in quattro regioni, con un debito pubblico spaventoso e, pur avendo fatto passi da gigante sul piano economico e nella lotta all'analfabetismo e pur avendo raggiunto una scolarizzazione accettabile, rimaniamo una nazione dall'assetto territoriale non ancora ben definito (siamo arrivati all'assurdo di aver creato tante piccole province inutili della cui abolizione si è tanto discusso per nulla) a mezza strada tra centralismo e decentramento, con un federalismo per ora solo prospettato e confusamente sognato.
C’è poi la proposta di riforma del cosiddetto federalismo fiscale che tende a trasformare lo stato in senso federale. Questa operazione, se possibile, richiederebbe tempi lunghissimi e non è detto che sia la panacea di tutti i nostri mali, anche se val la pena di impostarla.
Ma, poiché noi non abbiamo le grandi tradizioni federaliste della Germania, della Svizzera o degli Stati Uniti, nazioni per altro con una mentalità assolutamente diversa dalla nostra, cerchiamo di non mettere a rischio la nostra unità territoriale, guadagnata oltretutto sui campi di battaglia in almeno quattro guerre di Indipendenza (così continuo a considerare, per noi, la prima guerra mondiale) con il sacrificio di vite umane.
E pur con gli equivoci messi in evidenza nell'analizzare il Risorgimento, difendiamo l'unità dell'Italia, come un bene prezioso, pur ricordando con orgoglio nazionale, ma senza retorica, il 150° anniversario dell'Unità.
Mattia Ferraris
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