Cronaca ordinaria

Avevo portato ai bambini un calcio-balilla che era stato mio, conservato con la gelosia del figlio unico, e altri giochi per occupare la ricreazione nei pomeriggi troppo freddi per scendere in giardino. "Al primo litigio ve lo tolgo" avevo minacciato. Come se fosse facile. Intorno al calcetto il volume delle voci si alzava paurosamente, le aste scattavano rabbiose, gli omini frullavano lanciando la pallina fuori dalle sponde; tra i giocatori volavano le sberle.

"Ma chi ha portato quel finimondo?" domandò Agatina, la mia contitolare.

Aprii comicamente le braccia: "Io. Volevo farli divertire e convivere sereni secondo le regole del gruppo...". Ridevamo. Avevamo la rapina della giovinezza negli occhi. L’esperienza in quella classe fu nella nostra vita il cemento di un’amicizia che dura ancora. Il nostro accordo faceva bene ai bambini, creava un clima disteso e familiare, senza le tensioni e gli attriti della famiglia. Quando Agatina arrivava a scuola a mezzogiorno, per il turno pomeridiano, di solito era passata dal mercato di via Pavese. Le bambine le correvano intorno, sbirciando nelle borse: "Facci vedere cos’hai comprato. Ti sei presa dei vestiti? Tira fuori, dai..." Lei arrossiva facilmente, rideva e le accontentava. Una volta era un tappeto per il bagno, un’altra una teiera, un giorno fu una camicia da notte rosa pesca, lunga fino a terra, con i pizzi e le maniche plissè. "Da fatina!" aveva esclamato il gemello, con ammirazione. La mia collega era una bruna floridissima, bell’incarnato scuro, occhi verdi vivaci, peli tenuti a bada da sapienti rimedi, un gran seno materno e protettivo. Paziente e ferma più di me. Io avevo alle spalle un matrimonio che mi aveva dato gioia come un osso di pesca in una scarpa; lei viveva nel limbo trepido e vanigliato di chi, medicata la disperazione di una vedovanza precoce, si auguri per il proprio futuro il coraggio e la combinazione felice di un secondo matrimonio - avendo visto il primo finire senza naufragare. Sia io che Agatina ascoltavamo molto i nostri alunni; perchè la scuola si innestasse nella loro vita fino a modificarla, bisognava concedere ascolto a quelle vite, reggersi forte e discuterne. Venivano fuori, a volte, momenti di pausa ripiegati su se stessi, in cui uno tirava il filo di un ricordo e gli altri gli andavano dietro. Nelle giornate di pioggia, malinconico più di tutti era il gemello: "Era mio amico, Alfio..."

Altri: "Mi’ che fforte, Alfio! Con quella moto che ti scassava i timpani!"

Il gemello: "Sì, però a me sempre mi difendeva... Una volta al bar, uno mi sfotteva perchè a mio padre lo avevano beccato... Lui s’è alzato, s’è messo davanti a me e gli ha detto: se non lo lasci in pace, ti spacco la faccia... E quello, via che se n’è andato..."

Un altro, rassegnato: "Eh, Alfio mo’ sta in galera..."

Gemello, incredulo: "E pure Sergio!"

Una mattina mi sciamarono incontro eccitati per raccontarmi tutti insieme il fattaccio che aveva agitato il borgo, la sera prima, sotto gli occhi di tutti. "Parlate uno per volta, altrimenti non capisco", li pregai. Il gemello prevalse con una mimica impagabile: "Il padre di Tonino e il padre di Pasquale (alunni di un’altra classe, ma celebri anche fuori dal loro ambito), s’erano messi a litigare giù in cortile. Tutti dalle finestre a guardare, e quelli che gridavano: t’ammazzo, t’ammazzo! e intanto si prendevano a botte. Aun certo punto arriva una Volante, chè qualcuno di sopra doveva aver telefonato, e questa qui (indica una compagna) si butta in mezzo alla strada e gli fa fare una sgommata. Il pulotto scende e noi stiamo tutti lì intorno ai padri di Tonino e Pasquale a vedere come va a finire. "Beh? Che sta succedendo?" fa il pulotto. E quei due che volevano ammazzarsi ora si abbracciano, si mettono a ridere: "Ma niente! Siamo amici, noi! Stiamo scherzando" e si battono la mano sulla spalla. Allora il pulotto gli fa delle domande e poi va in macchina, prende il telefono e fa: "Sì, siamo noi. Stiamo in via F.... Ma non ci veniamo più. Qua sono i soliti munnezzari!" Hai capito, maestra, come ci ha chiamati? MUNNEZZARI! Cominciammo così a fare il giornalino di classe.

Munnezzari era oltraggioso. Ma, sul piano dell’igiene personale, qualcosa in più si sarebbe potuto pretendere. In fin dei conti i pidocchi li avevo presi anch’io. Su venti alunni l’assistente sanitaria aveva individuato tredici portatori. E non era colpa dei nomadi, che ogni giovedì mattina, entrando in palestra, vedevamo uscire grondanti dai locali delle docce, tutti avvolti in accappatoi bianchi, le teste pulite, avviluppate in turbanti di spugna. La maestra di sostegno, specializzata in cultura Rom, che li aveva appena lavati, indossava ancora il grembiulone di gomma, i guanti e gli stivali da casaro di latteria sociale in alta valle.

Mia madre mi aveva aiutato a sfilarmi le lendini. Mio padre, subito, era rimasto interdetto, senza parole. Poi, dal ricordo degli omaggi floreali che, in altri tempi, in altre scuole, avevano minacciato lo spazio vitale della nostra piccola casa, facendolo sbottare un giorno in un esasperato: "Ma insomma, cosa pensano che abbiamo, i giardini pensili di Babilonia?!", prosciugò il suo commento in uno sconsolato: "Che Babilonia!"

Agatina i pidocchi non li aveva presi. Proprio lei, che aveva la forza di frugare nelle capigliature vincendo ogni ripugnanza; Agatina che periodicamente preparava una sedia su cui i bambini si alternavano di malavoglia mentre lei si chinava scrupolosa a cercare e spulciare con le maniche rimboccate, se ne era salvata. La sua carità cristiana le attirava le giuste protezioni celesti.

Valeria Amerano