Assumiamo un termine usato in campo giuridico per definire sommariamente sia la categoria degli alunni con disabilità fisiche, psichiche, sensoriali o con difficoltà specifiche di apprendimento, sia quella degli alunni ospedalizzati o comunque impossibilitati a frequentare la scuola a causa di patologie gravemente invalidanti.
In realtà l’ambito delle fasce deboli è molto più vasto, composito e sfrangiato di quanto l’opinione pubblica sia indotta comunemente a pensare, in quanto comprende in generale i soggetti appartenenti a contesti familiari disaggregati o anche solo ripiegati sui problemi della sopravvivenza quotidiana, poveri di valori etici e culturali fondanti, dominati da logiche competitive, spesso conflittuali, quando non collocabili ai margini della criminalità.
Si tratta perlopiù di alunni per i quali il linguaggio delle discipline non serve a spiegare e a razionalizzare la realtà vissuta, mentre le motivazioni allo studio sono di ordine meramente pratico e strumentale, poco trainanti e sviate dagli stimoli esterni.
Non si tratta solo di drop-out, bensì di soggetti per i quali la scuola, forzosamente frequentata, non riveste più alcun significato, non adombra più alcuna prospettiva: a mano a mano che si passa agli ordini superiori, il numero dei demotivati, degli estraniati, degli indifferenti, degli sfiduciati cresce e non fa più notizia.
Ma limitiamoci per ora ad alcune riflessioni sulle “fasce deboli” tradizionali. In primis gli alunni con disabilità fisiche, psichiche, sensoriali.
Solo uno sguardo retrospettivo, per quanto rapido e sommario, ci permette di comprendere il significato delle basi su cui si fondano le politiche dell’integrazione che, almeno per il momento, riescono a sopravvivere alle logiche drammatiche dei tagli di risorse umane e materiali.
Non possiamo non constatare come, a partire dagli anni settanta, l’Italia si sia impegnata in una battaglia coraggiosa contro la logica dell’emarginazione che dominava la politica scolastica fin dall’inizio del secolo.
“Quando gli atti di permanente indisciplina, si legge all’art. 415 del Regio Decreto del 1928, siano tali da lasciare il dubbio che possano derivare da anormalità psichiche, il maestro può, su parere conforme dell’ufficiale sanitario, proporre l’allontanamento definitivo dell’alunno al direttore didattico governativo o comunale, il quale curerà l’assegnazione dello scolaro alle classi differenziali che siano istituite nel Comune”.
L’articolo si commenta da sé: un alunno indisciplinato viene spesso considerato, senza alcun riscontro scientifico, un handicappato. Il provvedimento dell’allontanamento, tanto più grave se si considera che in taluni casi le classi differenziali o speciali non risultano istituite nel comune di residenza, non concede alla famiglia alcun potere di ricorso. Da qui il triste proliferare di scuole speciali, funzionanti perlopiù in contesti extraurbani, nelle quali la povertà di stimoli è ben lungi dal favorire l’arricchimento culturale dei soggetti e accentua, sotto questo punto di vista, la difficoltà del loro rientro nelle classi comuni.
Quando, nel lontano 1969, approdai come direttrice didattica nella scuola elementare di un quartiere di prima immigrazione della periferia torinese, era in funzione nel mio circolo un numero incredibilmente consistente di classi differenziali e speciali, il cui unico requisito positivo era quello di non essere molto numerose. Le frequentavano quasi al cento per cento bambini immigrati dal sud, forzosamente sradicati da una cultura contadina e immessi in contesti sociali e culturali a cui si sentivano del tutto estranei: dai campi ai casermoni popolari, dai clan parentali all’assembramento di etnie diverse e spesso tra loro conflittuali, dal linguaggio elementare del villaggio di provenienza alla koinè dei dialetti. All’interno di tali classi mancava di fatto, né era facile creare, quell’ interscambio fatto di stimoli emotivi e creativi e di linguaggi che fossero in grado di veicolare idee, significati e valori.
Fu, almeno inizialmente, la contestazione studentesca nata nel sessantotto a fare scricchiolare le strutture obsolete della scuola selettiva ed emarginante e a metterne in luce le contraddizioni. Per quanto tale contestazione si risolvesse non di rado in un assemblearismo chiassoso, fatto di intromissioni indebite, di richieste improbabili, di strumentalizzazioni plateali, furono coinvolti a poco a poco comitati di genitori e gruppi sempre più consistenti di insegnanti per i quali la scuola doveva paradossalmente limitarsi a perseguire il mito dell’uguaglianza: non aveva importanza il fatto che i ragazzi imparassero a leggere e a scrivere, bastava che socializzassero e si aggregassero in contesti e situazioni di basso profilo socio-culturale.
Da qui prese avvio una serie di inserimenti nelle classi comuni di soggetti con gravi problemi cognitivi e comportamentali; ma le classi erano pletoriche e difficilmente governabili in assenza di docenti con un minimo di specializzazione, nonché di strutture e di ausili che potessero garantire condizioni minimali di recupero e di crescita.
Gli inserimenti “selvaggi” non favorirono certo la qualità del processo di integrazione, ma servirono a far comprendere all’amministrazione scolastica come almeno l’istruzione dell’obbligo non potesse, per la sua stessa natura, discriminare a-priori le potenzialità degli alunni sulla base di presunte carenze che solo la frequenza in contesti “normali” avrebbe potuto accertare e colmare.
Era l’anno 1971 e la legge che, ispirandosi al dettato costituzionale, consentiva l’accesso degli “irregolari psichici” alla scuola di tutti era la 118.
Di fatto le classi differenziali e speciali tardarono a morire e l’ingresso degli alunni disabili nelle classi comuni fu per vari anni contrastato: sovente gli insegnanti dichiaravano di non sentirsi in grado di affrontare i problemi del recupero in assenza di sostegni e di ausili e vedevano nella presenza dei disabili la minaccia dello scardinamento delle classi stesse; i genitori dei “normodotati”, a loro volta, consideravano i soggetti in difficoltà delle vere e proprie remore per lo svolgimento dei programmi e per il mantenimento della disciplina.
Occorrerà arrivare alla legge 517 del ‘77 per vedere la realizzazione concreta delle condizioni minime per un inserimento efficace: la programmazione individualizzata, l’introduzione di docenti formati al compito attraverso corsi specifici, l’intervento medico specialistico, l’abbassamento del numero di alunni nelle classi caratterizzate dalla presenza di disabili.
Una sentenza della Corte Costituzionale del 1987 estese alla scuola secondaria di secondo grado l’obbligo di accogliere nelle classi comuni i soggetti con disabilità fisiche, psichiche, sensoriali di natura e gravità diverse. Ma in talune realtà la norma fu per anni pretestuosamente elusa e a tutt’oggi essa è fonte di problemi non sempre di facile soluzione.
La Legge 104 del 1992 abbraccia l’intero settore dell’handicap e rappresenta la fonte alla quale si ispira l’intera normativa attuale. Per quanto attiene al settore scuola gli articoli dal 12 al 17 sanciscono il diritto all’educazione e all’istruzione delle persone con disabilità, dall’asilo nido all’università: definiscono le modalità e i mezzi di attuazione dell’integrazione, determinano la composizione e i compiti dei gruppi di lavoro preposti alla soluzione dei problemi che questa comporta a livello provinciale e di istituto; dettano i principi su cui deve potersi fondare la programmazione delle attività specifiche e la valutazione degli esiti; pongono le basi dell’istruzione professionale e dell’avviamento al lavoro produttivo.
La Legge Quadro del ’92 rappresenta una delle elaborazioni più avanzate a livello europeo nel campo dell’integrazione dei disabili nelle classi comuni, in quanto introduce principi innovativi che non verranno smentiti e neppure fondamentalmente superati dalla normativa successiva: il superamento dell’equazione persona handicappata - soggetto da assistere; l’affermazione del diritto all’educazione e all’istruzione prescindendo dalla gravità della minorazione; l’introduzione della logica della programmazione non solo all’interno dell’istituzione scolastica, ma, quel che è importante, fra amministrazione scuola, servizio sanitario, enti territoriali; la riduzione degli spazi del tecnicismo e della mera sanitarizzazione degli interventi; la valorizzazione della professionalità del docente curricolare e di sostegno.
I limiti della Legge Quadro del ’92 - l’incompleto riordino della normativa preesistente, non di rado confusa e contraddittoria soprattutto per quanto concerne l’attribuzione delle competenze; la difficoltà di superare il concetto di mero assistenzialismo; la debole prescrittività dei compiti; la mancata distinzione tra ritardo intellettivo e handicap psichico - hanno determinato una serie di problemi che a tutt’oggi possono indurre a errori di strategia, a confusione di ruoli, a soluzioni affrettate e di comodo.
Nel prossimo numero ci ripromettiamo di esaminare più in dettaglio le difficoltà che maggiormente incidono sul processo di integrazione, cercando di introdurre qualche elemento di chiarezza e comunque sottoponendo all’attenzione di quanti prendono in carico i soggetti con disabilità i problemi che, per legge, non possono essere affrontati e gestiti unicamente dai docenti di sostegno, ma implicano un concorso sistematico e programmato di energie, di competenze, di responsabilità.
(Continua...)
Lia Ferrero
- Versione adatta alla stampa
- 4115 letture