Introduzione
Questo testo non ha l’ambizione di descrivere il sistema educativo negli USA nel suo complesso: si tratta di una realtà molto articolata, in continuo divenire, impossibile da sintetizzare in poche pagine.
Si raccolgono qui alcuni ricordi di viaggi e soggiorni effettuati nel Paese nel corso di quasi 20 anni, con esperienze dirette, grazie alle reti di ospitalità Servas e Couchsurfing, che hanno permesso di vivere “dal di dentro” la vita di ogni giorno di alcune famiglie americane.
Twins/Gemelli
Matteo e Luca sono due gemellini. Nascono a Houston, Texas, USA, nel febbraio 2010. In quei giorni i media diffondono soprattutto notizie sulla crisi economica in atto e sulla riforma sanitaria, che dovrebbe garantire a tutti, anche ai due piccini, l’assistenza di base gratuita. Delle questioni educative si parla poco, più che altro in termini di tagli, soprattutto in certi stati che rischiano la bancarotta (California in primis…).
Quale sarà la scuola di e per Matteo e Luca? Per cominciare …imparano già! Nascono in un contesto multilingue e ascoltano parole in italiano, spagnolo e inglese/americano. Non solo, i bimbi nascono con ben tre passaporti: padre colombiano, madre italiana, più il passaporto statunitense per essere nati a Houston.
Ah, la babysitter è argentina…
Home schooling
È una sera di novembre e suona alla nostra porta un viaggiatore americano, dello stato del Michigan. Viaggia con due figli, una femmina di 11 anni e un maschio di 9.
E la scuola? Gli chiediamo.
“Facciamo «home schooling»”.
In sintesi, la famiglia garantisce allo stato che curerà in modo autonomo l’educazione dei figli. Nella loro zona, ci sono grandi distanze fra casa e casa e fra casa e scuola. Il sistema funziona con la costruzione di una rete di auto-mutuo-aiuto fra le famiglie che si consorziano per garantire la socializzazione, mettendo assieme diverse competenze. Il livello socioculturale ci sembra medio-alto. La scuola locale verifica periodicamente i livelli raggiunti.
In pratica, i nostri due home-students, finito la colazione, si mettono a scrivere il diario di viaggio del giorno prima, poi pianificano con il padre, la visita di Torino. In particolare si informano sulle possibilità che ci sono in città di praticare il birdwatching, l’osservazione degli uccelli nei parchi. Il giorno dopo sui quaderni ci saranno mappe, schizzi di uccelli e appunti con osservazioni del parco alla confluenza fra Stura e Po.
I due ragazzini appaiono fin troppo responsabili. Non possiamo non ammirare il fatto che il viaggio per loro non è una evasione, ma una opportunità di crescita, di raccolta ed elaborazione di informazioni che gli torneranno utili al ritorno in patria.
Bus gialli
Per chi viaggia in USA, il primo impatto visivo con la scuola americana è rappresentato probabilmente dai caratteristici bus gialli, quasi sempre con autisti negri, che portano a scuola gli studenti. Vengono in mente i telefilm di un tempo o i fumetti di Charlie Brown… Poco dopo aver portato a scuola i ragazzi, i bus si riempiono di nuovo e ripartono per una delle tante visite scolastiche organizzate dalle scuole.
Zoo, musei, parchi e monumenti non solo sono forniti di uno spazio didattico. SONO luoghi didattici.
Questa mattina di fine anno scolastico, siamo ad esempio di fronte al Brooklyn Museum e non lontano dallo zoo. Sono decine gli autobus gialli, da cui scendono decine di scolaresche. Subito colpisce un fatto per così dire “razziale”. Ogni classe ha una composizione in gran parte monoetnica. C’è la classe dei negretti, con qualche mulatto. C’è quella dei bianchi, con qualche giallo. Quelli delle private si riconoscono poiché sono per lo più bianchi e in divisa. Alcune classi sono composte solo di bambine. I loro bus non sono gialli, ma hanno il nome e lo stemma della scuola. Si nota ad esempio il bus di una scuola ebraica, evidentemente non molto ricca, di proprietà dei tradizionalisti, solo maschi, vestiti di bianco e di nero, con i codini.
Nei musei
Colpisce, nei musei americani, l’atteggiamento delle classi in visita. Che differenza rispetto a molti loro coetanei italiani in circostanze analoghe!
Li osservo seduti per terra, a semicerchio, su moquette o cuscinoni, davanti ad un dipinto o ad una statua “emblematici”. Attenti, pendono per così dire dalle labbra dell’animatore, un giovane, che ogni tanto alleggerisce il discorso con qualche battuta. Viene poi distribuita a ciascuno una tavoletta, con dei fogli pinzati. Sono specie di questionari a risposta aperta per verificare subito e fissare quanto appreso. A gruppetti si percorre il museo, in perfetto silenzio. Rari sono i “conflitti” con gli altri visitatori, che per lo più osservano divertiti. Poi il gruppo si riunisce in uno spazio in stile “laboratorio” con grandi tavoli. Si confrontano i risultati della esplorazione. In alcuni casi si organizzano dei veri e propri manufatti, disegni, copie dal vivo.
L’ultima tappa è forse la più gradita: la “cafeteria” del museo, pulitissima, con prezzi contenuti.
Colpisce per chi viene dall’Italia il fatto che nessun allievo, compresi quelli delle superiori, porta con sé non dico il cellulare, ma neppure gadget elettronici. Al museo si viene PER il museo.
E neppure gli insegnanti portano con sé o usano il micidiale strumento di comunicazione, che se usato male…
Bisogna dare atto ai musei americani di essere molto “didattici”, a volte persino un po’ “propagandistici”. Non sono strutture “per chi sa già”, ma sono vere e proprie fabbriche di moltiplicazioni della conoscenza. In questo senso i musei “tecnologici” sono ovviamente all’avanguardia, ma anche quelli artistici e storici, seppure meno ricchi dei nostri, sono meglio valorizzati. Si tenga inoltre conto che le comunità e i singoli sovvenzionano i musei e quindi si cerca poi di avere un ritorno pubblico, in una società complessivamente molto privatizzata.
La classe di Juan
Nella maggior parte delle scuole americane, gli allievi non fanno riferimento ad una sola aula, ma ruotano su diversi laboratori a seconda degli orari. Gli insegnanti hanno invece in affidamento uno spazio ben definito, di cui sono responsabili. Le loro mansioni, in molti casi, spaziano dalla preparazione delle lezioni sia in teoria che in pratica, fino alla pulizia del locale, prima e dopo le lezioni.
Siamo in una scuola primaria di Houston, Texas. Il visitatore è accolto da un grande cartello colorato scritto in spagnolo. BIENVENIDOS. E poi c’è il nome del maestro JUAN HURTADO.
L’aula è enorme, suddivisa in sottozone: l’aula frontale, con i banchi piccolissimi, commisurati con le dimensioni degli allievi: si tratta di una prima. C’è poi l’area per vedere la televisione, quella dei personal computer, la bibliotechina di classe, con volumi in spagnolo ed inglese. Tutto colorato. Tutto “piccolo”. Gli allievi sono pochi, 16 in tutto, con leggera prevalenza di maschietti. È una classe “speciale” in quanto tutti i componenti sono di madre-lingua spagnola. Molti sono figli di immigranti illegali.
Il maestro, Juan Hurtado, è a sua volta colombiano ma è…. immigrante legale! È interessante il modo in cui è diventato maestro. Laureato in scienze biologiche a Medellin, conosce tutto sugli insetti e la giungla. Un giorno, mentre studia l’ambiente della foresta, viene rapito da una banda. Liberato, decide che poteva bastare ed emigra negli USA. Viene a sapere che in questo paese, ad esempio in Texas, si è creato un fabbisogno di insegnanti di madrelingua spagnola. Per accogliere i figli degli emigranti sudamericani, non importa se legali o illegali. Il reclutamento degli insegnanti non avviene per anzianità o graduatorie, ma per un concorso interno ad ogni scuola. Si tenga conto che gli americani hanno una certa difficoltà nell’apprendere e quindi insegnare le lingue straniere. Juan, con la sua cultura superiore accompagnata dallo spagnolo, dall’inglese e … dalla sua pazienza, trionfa e ottiene il posto con la relativa “green card” sognata da tanti immigrati: il permesso definitivo di soggiorno. E per di più la paga è superiore a quella di molti colleghi statunitensi che insegnano materie “normali”.
È lo stesso maestro Juan che ci descrive la sua esperienza lavorativa in pratica
i suoi allievi provengono per lo più da famiglie povere e non c’è alcun “americano”. Si tratta per lo più di immigrati legali di seconda generazione che parlano un misto di inglese e di spagnolo, un Spanglish. Il livello è quindi piuttosto “basso”. La classe è cosiddetta “bilingue”. In prima le lezioni sono al 100 per cento in spagnolo, poi progressivamente l’inglese prende il sopravvento, per divenire predominante entro il quarto anno. Questo in realtà non succede. È difficile raggiungere gli obiettivi, ma comunque c’è molta tolleranza.
L’orario di lavoro è “full time”, tempo pieno, dalle 7.30 con l’accoglienza alle 15.30, con una pausa a pranzo, per 5 giorni alla settimana. Si inizia ad agosto e si finisce a inizio giugno: però ci sono molte feste e complessivamente ci sono poco meno giorni di lezione rispetto ai coetanei italiani.
Non ho osato chiedergli quanto guadagna, ma è noto che gli insegnanti americani guadagnano più di quelli italiani…. Comunque per quello che ho visto e ascoltato, si tratta di un lavoro socialmente molto importante e anche delicato, per cui quei soldi il maestro Juan se li guadagna con pieno merito!
(Continua...)
Bruno Manfredi
- Versione adatta alla stampa
- 3547 letture