Pubblichiamo qui di seguito un racconto breve che la nostra socia Valeria Amerano ha pubblicato su "La Stampa" il 15/08/2010 nella rubrica "Cuori allo specchio"
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Forse non con dolcezza, ma con penosa tenacia resta impigliato alla memoria il ricordo di estati in cui una generazione, la mia, può riconoscersi senza troppo orgoglio.
Eravamo un pugno di adolescenti fecondati di canzoni urlate alla luna, slogan politici scanditi ai cortei dei pugni chiusi, sciarpe frangiate lunghe fino a terra, categorie strette come la nostra vista, sogni che appena svegli ci avrebbero lasciati a pezzi nel fango a cercare a mani nude i nostri cocci. Facevamo di un canto la nostra bandiera, di una poesia il nome del nostro languore, di una faccia il profeta, l'interprete e il padre della nostra sete di libertà di farci male.
Sentivamo. O ci sentivamo spinti a sentire, a esperire e inventare, a curiosare nel sesso e a scuotere l'amore come l'albero dai frutti ancora verdi. Il tempo ci sogguardava e ci lasciava fare. Il suo appuntamento era più in là, quando per molti di noi sarebbe stato tardi. Bruciavamo: energia, fretta, rabbia, coerenza esasperata cucita a sentimenti che ancora non conoscevamo, a teorie incontrate sulle pagine e macinate in orge di parole. Era la nostra ora; cavalcavamo il puledro selvaggio della vita dai cavalli bianchi della giostra. A whiter shade of pale ci estenuava; in sella a Easy Rider traversavamo l'America ubriachi del sangue della moto che non avremmo mai avuto; Born to be wild era il respiro dei giovani, l'empito del cuore esaltato in ogni lingua del mondo.
Ci avessero rapiti. Separati, divisi, reclusi. Per metterci al sicuro. Qualunque solitudine sarebbe stata meglio di quella poltiglia idolatra in cui crescevamo con la paura di pensare diversamente dagli altri, di essere sbagliati, coi nostri jeans a campana e l'anima colata nello stampo. Per sottrarci all'autorità della famiglia ne consacravamo altre non meno grevi. Baciati da briciole di luce di fuochi artificiali esplosi lontano, ci credevamo raggi di un nuovo sole, mentre eravamo lucciole brevi che trafiggevano inosservate il buio. La scure sui pregiudizi non aveva ancora finito il lavoro. L'estate pullulava di amori; i boschi del paesello ritrovato ogni agosto conservava muto e indifferente insieme ai funghi e le buone noci i segreti delle verginità perdute, lo sgomento e il brivido della sorpresa, lo scempio dell'imperizia. Maschi che si scusavano, ragazze che stringendosi a loro piangevano di timore a ritornare a casa mentre sulle dita dietro la schiena contavano i giorni. Affrontare la vecchia solfa con un problema nuovo da nascondere nella tasca degli occhi.
Da dove arrivi?... La casa non è un albergo.... Quando sarai indipendente... Hai le occhiaie di chi ha fatto delle porcherie... Genitori coi piedi infitti nel ricordo della guerra, di tribolazioni, giovinezze sacrificate, obbedienze e maldestri ripieghi di cui ancora si portava tutti insieme il carico oneroso; di cui non s'era finito di scontare tutti insieme la pena. Sentivamo alle nostre spalle la loro voce; dentro di noi la coscienza di privilegi loro negati. Amoretti divampati per scherzo, curiosità, noia e prurito finivano sulla piazza della chiesa in matrimoni frettolosi e vestiti mollati sui fianchi a celare quel che il pallore della sposa gridava forte al pugno di riso lanciato come una beffa in faccia al turbamento (che ciascuno dei due provava per se stesso). Insieme non erano del tutto sicuri, la vita li aveva lasciati indietro di qualche passo. Ancora non si erano riavuti dall'incidente del bosco. I Battisti e i De André improvvisamente erano svaniti e loro s'erano trovati a interrompere gli studi e a cercare casa, stoviglie e imbianchini. La libertà professata intorno ai falò, alle note di una chitarra nella rugiada dei prati, si spegneva come una fiammella vacillante al soffio di un "sì". La novità era la musica degli amici dietro l'altare, la chitarra elettrica e la batteria ad arrangiare di singhiozzi e strattoni le marce nuziali, il testimone barbuto senza cravatta col distintivo di Mao appuntato alla giacca. La rivoluzione aveva cambiato gli abiti più delle abitudini.
Non si riusciva a strappare dalla bocca di quei ragazzi, onesti operai, impiegati e liceali, la parola "puttana", sprezzantemente affibbiata alle ragazze che si arrogavano diritti e libertà maschili. I nostri amici volevano compagne disposte a provare il sesso prima del matrimonio, ma fedeli. Non tolleravano rivali perché non volevano confronti. Non accettavano di essere frequentati, conosciuti e lasciati. Dovevano essere loro, semmai, a annoiarsi, a lasciare. Le giovani soffrivano ancora il potere dell'insulto. Non erano certe, dopo aver tradito la famiglia, di non meritarlo. Ribollivano di dubbi e se ne vergognavano. Che sia tutto qui? s'interrogavano in silenzio. Assaggiato il frutto dell'albero, si aspettavano di meglio. Sarebbero occorsi tempo e pianto prima di vedere le donne andare a stare da sole per governare come gli uomini e meglio degli uomini la propria rotta solitaria. Ci illudemmo in molti, a quel tempo, d'esser migliori e di riscrivere l'amore. Ci derubammo l'un l'altro. Di tempo, poesia, pazienza, pietà amorosa, piacere.
Dieci anni dopo quelle barbare estati eravamo quasi tutti dispersi, gli sposati in gran parte divisi, i bambini assegnati all'uno o all'altro e cresciuti dai nonni nel tempo residuo. Se ci incontravamo per strada distoglievamo gli occhi per non salutarci, perché feriva ripensare alla stupidità corale che aveva restituito - senza sconti da comitiva - un'intera dote di danni per ciascuno di noi.
(Valeria Amerano)
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