Li portavamo a pescare a Castel Passerino, in un laghetto artificiale attrezzato e riservato alla pesca sportiva, ai piedi del Musiné.
Fra le numerose iniziative proposte alle scuole negli anni dell'amministrazione Novelli, esisteva questa felicissima e poco frequentata opportunità. Per i nostri bambini di Mirafiori Sud, con pochi soldini in tasca e vivacità da vendere, era un'occasione preziosa. Si partecipava una classe per volta: come si decidesse, una mattina, di prendere la propria famiglia allargata per concedersi una gita fuori porta, senza intrusi, spostando all'aria aperta, lungo la riva rotonda e tranquilla di un laghetto, fino alle quattro e mezza, la lezione. Veniva a prenderci un piccolo bus del Comune che costava, nell'80, cinquecento o mille lire a testa, esattamente non ricordo; ma so che per passare fuori un'intera giornata era, anche in un quartiere povero, una cifra simbolica.
A Castel Passerino trovavamo ad attenderci due pensionati, due nonni, dotati di pazienza, garbo, canne da pesca ed esche vive. Al primo vociare scomposto per stabilire le precedenze, i due "maestri di pesca" scuotevano il capo e bisbigliando adottavano coi bambini un codice di comunicazione ovattato che essi impiegavano di solito per giocare ai mimi, a nascondino o a tramare burle.
"Se parlate forte le trote si spaventano, scappano e non ne pescate più. Sono pesci furbi, sapete. Per farle avvicinare bisogna stare zitti...". Mostravano ai bambini come si appende l'esca, anche se poi provvedevano loro all'operazione; li collocavano alla giusta distanza l'uno dall'altro, e con gesti lenti, precisi e accorti, utili ad affinare nei ragazzi l'attenzione, la misura e il calcolo delle conseguenze, insegnavano a lanciare sull'acqua la lenza, a muoverla per illudere il pesce della vitalità del verme, a trarla a riva con cautela azionando il mulinello solo quando la trota avesse abboccato saldamente. Un recupero troppo rapido, ad una prima tensione della lenza, avrebbe provocato il distacco del pesce dall'amo. Ampi gesti silenziosi richiamavano l'esperto che accorreva ad aiutare il pescatore fortunato a deporre a riva la trota che si dibatteva nell'aria, prima di finire sotto un colpo deciso che ne troncava l'agonia.
Li guardavo mantenersi a distanza, silenziosi e concentrati, qualcuno seduto sui talloni in una posa orientale, tutti placati, sereni, sorridenti, femmine e maschi, desiderosi di portare a casa la prova di una conquista nuova, il frutto della pazienza e di un'abilità sconosciuta. Mai come sull'orlo di quel laghetto avevo visto tranquilli gli irrequieti e fiduciosi i timidi, tutti con gli occhi posati sull'acqua a seguire finalmente con la complicità e la vastità del silenzio un pensiero, una fantasia, un ricordo senza le ruote della fretta, il sovraffollamento rumoroso delle case, delle scuole, dei cortili.
Si voltavano a salutarmi con la mano, mentre camminavo tutto intorno, alle loro spalle, e segretamente mi commuovevo alla giornata di gioia che cuciva insieme le nostre vite. Mi tornava in mente una pagina di Proust, quando bambino, durante le passeggiate lungo il corso della Vivonne a Combray, l'autore si imbatteva con i genitori nel solito pescatore il quale mostrava di conoscerli levandosi il cappello al loro passaggio. Il bambino allora avrebbe voluto chiedere il suo nome, ma i genitori gli facevano cenno di tacere per non spaventare il pesce. Scrivendo la "Recherche", Proust si accorse di ignorare ancora, e per sempre, in ossequio a quel divieto, l'identità del pescatore di Combray.
Ero convinta d'imparare molto sulla natura umana osservando i bambini giocare, organizzarsi o applicarsi ad un esercizio. Mi piaceva stare da parte, sorvegliarli di lontano, vederli rispondere a una difficoltà, agire e interagire.
Consumavamo il pranzo freddo della refezione nel locale annesso al laghetto, un bar frequentato dai soci della pesca sportiva con una saletta ceduta alle classi ospiti e affidata alle loro cure. Lasciavamo quindi i tavoli puliti, raccoglievamo i nostri rifiuti e spazzavamo a terra con uno zelo che spesso trascuravamo a scuola. Le trote pescate finivano in un cesto. La regola era che tutti dovessero tornare con almeno un pesce: perciò, quando si avvicinava l'ora della partenza, i due anziani si davano da fare ad aiutare coloro i quali non avevano pescato nulla. Accadeva che qualcuno più abile o fortunato ne avesse pescate due o tre: due erano consentite, la terza veniva data in dono ad un compagno che ne avesse soltanto una. L'esperienza ricreativa terminava con una condivisione in cui ciascuno era chiamato a superare il proprio egoismo.
L'indomani raccontavamo al nostro giornalino le avventure, le emozioni e la sorpresa di un giorno speciale che passava sempre troppo in fretta.
Valeria Amerano
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