Premessa
Studi nazionali ed europei sembrano rilevare un aumento ed una diversificazione del fenomeno della violenza fra minori in particolare nelle scuole.
In questo contesto mi riferisco alla «violenza a scuola» richiamando così un fenomeno complesso di violenza anche occasionale impulsiva e contro le cose, che non coinvolge solo i coetanei tra loro, nè i meccanismi ormai ben studiati di asimmetria tra autore e vittima, ripetitività e intenzionalità tipici del bullismo.
Le richieste di attenzione alle problematiche della violenza e del disagio provengono sempre più dall’ambiente sociale complessivo. Sovente sorge il dubbio che sia l’enfasi dei mass-media a far considerare la violenza degli studenti a scuola, e quella giovanile in generale, come un fenomeno in crescita smisurata o addirittura nuovo. A me pare più ragionevole pensare ad un aumento di visibilità del fenomeno favorito da elementi positivi quali l'interesse per il tema della violenza ai bambini, il diffondersi di modelli di relazione adulto-bambino maggiormente basati sul dialogo, una maggiore attenzione ai diritti individuali ed alla loro tutela.
Da tempo nella scuola si pone il problema della ricerca di strumenti adeguati per affrontare i comportamenti aggressivi degli alunni che si spingono fino a manifestazioni di bullismo.
Questi appunti sono solo delle briciole di ragionamento che vorrebbero, come nella favola di Pollicino, aiutare insegnanti e dirigenti a non perdersi.
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:: La violenza entra a scuola con i problemi e le paure dei ragazzi, con i fatti di cronaca e della vita quotidiana, con il clima sociale complessivo. Inoltre la scuola riceve talvolta bambini-ragazzi trattati male o maltrattati nel contesto familiare nel quale vivono: la stragrande maggioranza dei comportamenti violenti, anche gravi, si manifestano nel privato, in casa, contro persone vicine (figli, mogli-compagne, genitori, fidanzate, vicini di casa) ed evidenziano una carenza nella educazione dei sentimenti quanto della ragione di chi li agisce.
Non si può neppure negare che la scuola a sua volta produca violenza, seppure talvolta inconsapevolmente: con un’organizzazione rigida che non favorisce l’attenzione ai singoli ed alle dinamiche di gruppo, con il prevalere di modalità solo trasmissive dell’insegnamento, ma soprattutto con l’adesione ad una visione adultocentrica di se stessa, della società, dell’educazione.
:: Dobbiamo fare i conti con modelli di comportamento e schemi di relazione di cui è permeato il nostro contesto sociale. Il ricorso alla regolazione violenta dei conflitti e delle difficoltà relazionali in ogni campo è diffuso, tanto da essere considerato normale ed essere piuttosto approvato; scarseggiano sia l’investimento nel valore di riferimenti normativi condivisi, sempre più spesso presentati/vissuti come ostacoli alla libertà individuale, sia la considerazione degli altri come persone titolari di diritti pari ai nostri. Tra i ragazzi paiono sempre più diffuse scarsità di interessi e noia della quotidianità, che sovente essi tendono a riempire con immagini e giochi elettronici, che inducono facilmente alla deresponsabilizzazione anche attraverso un indebolimento della consapevolezza delle conseguenze di atti di violenza su persone-vittime reali. Inoltre, in molte periferie urbane il contesto di vita ancora, purtroppo, fenomeni di disgregazione sociale, degrado socio-culturale e scarsità di opportunità positive, possono essere fattori importanti nel determinare un orientamento individuale e di gruppo alla violenza, che non si devono enfatizzare ma neppure dimenticare.
:: Le innovazioni di questi anni nel settore scolastico traggono il loro riferimento principale nel DPR n. 275 del 1999 «Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolasticheche» all’articolo 1 recita: «l’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione, mirati allo sviluppo della persona umana (…) al fine di garantire [agli studenti] il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema d’istruzione …».
Il Piano dell’Offerta Formativa è il «documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettualedelle istituzioni scolastiche». Nel POF deve essere esplicitata «la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia», promuovendo «le potenzialità di ciascuno e adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo».
Inoltre nella Direttiva Ministeriale n. 16, 05/02/2007 – Linee di indirizzo generali ed azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo si legge: «L’autonomia delle istituzioni scolastiche, … è orientata a favorire … la realizzazione di interventi educativi e formativi adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti al fine di garantire loro il successo formativo. (…)
…si deve avere consapevolezza che la prevenzione ed il contrasto al bullismo sono azioni “di sistema” da ricondurre nell’ambito del quadro complessivo di interventi e di attività generali, nel cui ambito assume un ruolo fondamentale la proposta educativa della scuola verso i giovani».
Per questi motivi ritengo indispensabile che sia inserito nel POF di ogni istituto scolastico, e di conseguenza nelle programmazioni delle classi, elementi per una politica scolastica integrata per contrastare e prevenire la violenza a scuola, intesa come “un insieme coordinato di interventi che coinvolgano tutte le componenti scolastiche e nella quale gli adulti della scuola si assumono la responsabilità della relazione con i ragazzi” (Buccoliero, Maggi “Bullismo- bullismi” Franco Angeli, 2005).Si deve operare per rendere possibili progetti che portino innovazione nella didattica tenendo conto dell’ambito relazionale, che attivino le risorse della scuola per conoscere (perché i processi difensivi di negazione possono accomunare, per ragioni diverse, alunni ed istituzione), prevenire, contrastare fenomeni di disagio, dispersione, violenza, che si ripercuotono sull’apprendimento. Presupposto è il coinvolgimento del collegio docenti, di singoli insegnanti e di tutto il personale scolastico nel mettersi in gioco nel rapporto con gli studenti e le famiglie e viceversa.
:: Purtroppo, invece, la situazione non mi pare mutata di molto rispetto alla descrizione che la Prof.ssa Fonzi in relazione al bullismo proponeva già diversi anni fa: “Si ha l'impressione che [gli adulti] acquisiscano consapevolezza del fenomeno in questione quando questo ha già raggiunto evidenze eclatanti o quando le vittime abbiano corso concreti e ripetuti rischi di danneggiamento fisico e psicologico. O quando sono gli stessi adulti a fare le spese delle prepotenze agite dai ragazzi” (A. Fonzi – Psicologia contemporanea , n° 3 1998).
Ancora spesso gli adulti con compiti educativi innescano reazioni a catena, del tipo offesa – provocazione - punizione - nuova provocazione - nuova punizione - ulteriore provocazione - punizione formale, favorendo o determinando un processo di stigmatizzazione che fissa l’identità del bambino/ragazzo in termini negativi, attaccando la sua immagine di sé e la sua autostima, favorendo una sclerotizzazione delle relazioni tra l’alunno ed il contesto, in termini anch'esse negativi: si rischia così di attivare un circolo vizioso che tende a ripetersi e ad ingigantirsi in una spirale che sembra ben presto inarrestabile. Spesso, troppo spesso ancora, si richiede che i ragazzi-alunni più problematici siano allontanati. A volte ciò avviene, in altre occasioni l’obiettivo di “salvaguardare” il gruppo dal cattivo elemento viene perseguito attraverso meccanismi più sottili e sotterranei, senza accorgersi che il più delle volte qualche altro alunno prende il posto di quello allontanato-isolato.
Lo “stile relazionale” complessivo della vita scolastica è ovviamente favorente o sfavorente il fenomeno: per esempio, una certa tolleranza ed approvazione della violenza a scuola vengono rinforzati a livello psicologico e sociale quanto più il fenomeno viene banalizzato come “scherzo” o imputato alle vittime.
:: E’ attraverso l’attenzione al gruppo ed alle sue dinamiche che si deve intervenire. I comportamenti aggressivi sono il prodotto di interazioni diverse, è necessario quindi riconoscere le dinamiche di un gruppo ed entrarci per favorire dei cambiamenti significativi in un’ottica di prevenzione e di intervento sul fenomeno.
Non è semplice il lavoro educativo per chi voglia affrontare seriamente il problema, anche perché chi nella scuola cerca di arginare il fenomeno lo fa spesso in solitudine ed in controtendenza rispetto al pensiero comune diffuso. Non è facile contrapporsi e lavorare educativamente al fine di creare un’idea di NOI che includa tutti, ciascuno con la propria individualità-unicità-diversità, in una fase storica in cui prevale l’idea di un NOI ben distinto da LORO: «NOI siamo pochi, riconoscibili, differenti e LORO sono categorie di tutti uguali, spersonalizzabili … grigi! NOI siamo visibili, vogliamo essere visibili, abbiamo il diritto alla visibilità: esistiamo perché appariamo e per apparire-esistere facciamo (quasi) qualunque cosa. LORO no, al massimo possono apparire come vittime-comparse nel nostro gioco».
Ancora scarseggia la consapevolezza che uno dei migliori e più efficaci strumenti di intervento consiste nel favorire ed allestire una sorta di allenamento alla prosocialità.
Sappiamo (Si veda, per esempio, la Dichiarazione di Siviglia del 1986 - UNESCO) che nell’evoluzione della nostra specie non vince il più forte, ma il più adatto, in definitiva il più “intelligente”. La prosocialità fa parte di questa intelligenza, il suo grado di sviluppo e le sue possibilità di educazione dipendono in gran parte dalle esperienze che il “cucciolo dell’uomo” è messo nelle condizioni di fare, certo soprattutto nella prima infanzia, ma durante tutto l’arco della sua esperienza formativa. A fronte di quella sorta di anestesia delle coscienze che sembra prevalere a livello sociale, l’educazione alla prosocialità si propone come attività per favorire lo sviluppo della consapevolezza di sé, non per disinnescare i conflitti (che anzi risultano utili per la crescita e l’apprendimento), ma per migliorare il gruppo ed ogni suo componente e per diminuire la necessità/opportunità di ricorrere alla prevaricazione ed alla violenza quali strumenti comunicativi.
«Un’educazione alla prosocialità, oltre ad inibire in generale il comportamento aggressivo, … può contribuire a …connotare le relazioni tra pari come un importante fattore di protezione tra i giovani» (Tatiana Begotti, Silvia Bonino “La prosocialità” in MinoriGiustizia n.4 - 2007, pg. 73).
:: La possibile attivazione di un circolo virtuoso comporta una visione sistemica dell’azione educativa. Essa passa attraverso il superamento dell’isolamento, della solitudine, dell’assenza di speranza, della rinuncia alla creatività. La scuola deve favorire cambiamento al suo interno con interventi contemporaneamente strutturanti (che aiutano ad arrivare a risultati rispetto alle strutture del comportamento), informanti (che aiutano la classe ed ogni alunno/a a divenire consapevoli) ed istituzionali (centrati sulla vita della classe e della scuola e sui rapporti con altre istituzioni e agenzie).
In particolare la scuola dell’obbligo può essere un fattore protettivo rispetto alla diffusione di comportamenti violenti tra i propri allievi a livello di struttura (spazi e tempi), di organizzazione (regole e attività didattiche) e del ruolo educativo degli insegnanti. In essa gli adulti devono operare per potenziare le abilità dei bambini-ragazzi e favorire il successo scolastico e la soddisfazione degli allievi (elementi importanti per l’autostima e lo sviluppo del senso di efficacia), essere luogo del contenimento (sul piano materiale – spazi, tempi – emotivo e mentale), far percepire agli alunni giustizia e protezione.
Se ogni alunno percepisce di essere trattato giustamente e di essere protetto, di poter comunicare suoi stati d’animo anche dolorosi (senza con ciò distruggere chicchessia!), di poter sperare di avere momenti di gratificante successo … ha minor bisogno di cercare tutto questo in un mondo parallelo (bagni, corridoi, ecc.), e/o di cercare lì un suo “guardaspalle”. Si tratta di lavorare contemporaneamente sul livello cognitivo ed emotivo insieme.
:: Nella ricerca di strumenti adeguati rientra anche l’esigenza di raccogliere dati ed elementi del contesto nel quale si opera per meglio calibrare gli interventi educativi. E’ importante che tale esigenza si manifesti prima di un’eventuale “bufera” che può investire la scuola a causa di episodi di violenza, si può realizzare come strumento che rappresenta anche un momento forte di attenzione ad un problema ineludibile nella vita scolastica … rappresenta una azione preventiva di autodifesa della scuola stessa (“ci stavamo appunto occupando del fenomeno!”). Esiste una buona documentazione su questionari da proporre agli studenti, ai lavoratori della scuola ed alle famiglie, personalmente prediligo quelli che permettono di avere dati su fatti e comportamenti a quelli che partono da una spiegazione del fenomeno che si vuole conoscere; inoltre in letteratura si trovano anche indicazioni sull’utilizzo dei focus group e di altri strumenti di conoscenza ed approfondimento. Ritengo che l’elemento più significativo sia rappresentato dalla scelta consapevole di modalità specifiche che vengono motivate e condivise tra colleghi.
:: I processi cui sopra ho accennato richiedono una buona formazione degli insegnanti. Il tema è controverso e spinoso e non è certo compito di una serie di appunti proporre soluzioni organizzative, qui accennerò a necessità ed a possibilità.
In particolare la formazione necessaria per progetti di prevenzione ed intervento sulle tematiche qui accennate deve centrare l’attenzione sul rapporto tra problematiche comportamentali e difficoltà di apprendimento. L’ambito della relazione e della mediazione assume un ruolo centrale nel curricolo.
Si tratta di offrire agli insegnanti strumenti per affrontare le difficoltà educative attraverso percorsi che li coinvolgano attivamente anziché sostituirsi a loro con “specialisti” nelle classi, al fine di far crescere le competenze della propria scuola, anche valorizzando il ruolo di docenti riconosciuti come adulti autorevoli di riferimento.
Il modello di formazione cui mi riferisco si mantiene legato alla concretezza delle dinamiche scolastiche e si basa sulla modalità della ricercazione sui temi della conflittualità.
La modalità di ricercazione può garantire una ricaduta positiva sugli aspetti relazionali e didattici se gli insegnanti non sono lasciati soli, ma sono messi in condizione di collaborare e confrontarsi in un gruppo ampio, se hanno l’opportunità di ricercare ed elaborare percorsi in collegamento con i curricoli scolastici e confrontare le proprie esperienze in un contesto di supervisione pedagogica e psicologica: la scuola italiana è rimasta una delle poche organizzazioni di servizi nella quale gli operatori non possono usufruire con regolarità di supervisione e sostegno al proprio operato … ed il born out dei docenti è in aumento! (ma questo è un altro discorso).
In un discorso di politica integrata è auspicabile il coinvolgimento anche di altre figure adulte con compiti istituzionali educativi: educatori, assistenti sociali, volontari.
:: I progetti dovrebbero essere ampi partecipati e attuati su tempi medio-lunghi. Un percorso comune fra diverse classi in un progetto unitario facilita il raggiungimento di risultati positivi, meglio ancora sarebbe il coinvolgimento dell’intera scuola. Alcuni problemi diventano anche obiettivi “strategici” per il successo e l’implementazione di un percorso su queste tematiche:
* l’indispensabile impegno del dirigente per la creazione di una strategia di scuola;
* le regole: poche, pubbliche, semplici e spiegate, coerenti; non solo divieti;
* la continuità e costanza nell’accogliere anche il malessere dei ragazzi;
* una buona flessibilità nella programmazione;
* un tempo sufficiente e riconosciuto per l’elaborazione e l’attuazione degli interventi;
* una visibilità del percorso;
* il coinvolgimento di tutte le figure adulte: dai collaboratori scolastici ai genitori.
Alcune linee che possono guidarci nella ricerca del coinvolgimento delle famiglie possono essere così sintetizzate:
* non aspettare a muoversi quando la situazione “scoppia”, né tanto meno ricercare “supplenze “ punitive, ma lavorare per una comprensione comune di ciò che accade ai figli-alunni;
* richiamare i diritti ed il potere dei genitori, non solo i doveri e le responsabilità;
* organizzare momenti di scambio e occasioni concrete di collaborazione, più che incontri e conferenze;
* ricercare una maggiore coerenza fra gli interventi dei due sottosistemi scuola e famiglia.
Con gli alunni si deve mettere in campo qualcosa di più di una serie di giochi-attività in singoli momenti di approfondimento di/su le emozioni ed i sentimenti, servono modalità per mantenere un filo rosso fra le proposte, coerenza con la didattica quotidiana e per proporre in diverse situazioni analoghe attività e modalità.
Brainstorming, circle time, giochi di ruolo sono le attività maggiormente efficaci, se ben condotte, anche perché a livello generale favoriscono gli insegnanti:
* nell’osservazione, per cercare di capire le motivazioni che stanno dietro ai comportamenti aggressivi ed entrare nel vivo del problema;
* nell’ascolto e nell’offerta ai ragazzi della possibilità di sospendere l’azione attraverso la verbalizzazione delle proprie emozioni;
* nel porsi come adulti responsabili, attenti e forti, e nel favorire la comunicazione, il dialogo, la comprensione di quello che sta succedendo, perché gli alunni comprendano che il dialogo aiuta a ragionare e ad impedire che le tensioni degenerino in “violenza”.
E’ importante anche che gli insegnanti imparino a “fare ponte” (bridging) con le discipline d’insegnamento-apprendimento, con la quotidianità della vita scolastica e non solo.
Lo spirito di queste modalità di relazione interpersonale è spesso anche presupposto per favorire la rimotivazione all’apprendimento di molti alunni.
Troppo spesso invece vengono proposti interventi spot, non inseriti in una progettualità più ampia, che non coinvolgono la quotidianità delle relazioni scolastiche né l’approccio alle discipline di insegnamento.
:: E’ necessario riconsiderare gli aspetti socio-affettivo-relazionali nell’apprendimento e curare gli elementi metodologici per un apprendimento collettivo-cooperativo; si deve proporre una vera e propria educazione alle competenze sociali, di saper fare; è necessario parlare ed ascoltare senza stancarsi. Ciò che sembra veramente efficace non sono tanto l’ora “antiviolenza” o di educazione alla convivenza civile, né i progetti speciali, ma una costante e certosina cura dei diversi aspetti della quotidianità, del contesto, con obiettivi precisi.
Gli obiettivi generali possono essere individuati in:
* Individuali: favorire presa di coscienza dei propri bisogni, emozioni, risorse; incrementare la capacità di autocontrollo e lo sviluppo personale socio-affettivo.
* Interpersonali: promuovere le competenze sociali, in particolare di mediazione interpersonale.
* Collettivi: creare un clima relazionale preventivo di forme di intolleranza e violenza; rinforzare il gruppo.
* Per gli adulti: incrementare la conoscenza del fenomeno, sviluppare attitudine e capacità di attenzione di ascolto e di intervento.
Gli obiettivi specifici possono essere:
* riconoscere-conoscere se stessi, gli altri, alcuni problemi delle relazioni interpersonali e sociali,
* non lasciarsi travolgere dalla paura dell’insolito dell’inusuale e diverso,
* sensibilizzare, avvicinare alle tecniche della comunicazione e alla loro pratica,
* imparare ad utilizzare la comunicazione come medium anche nei conflitti interpersonali,
* sviluppare autocontrollo e capacità di mediazione interpersonale (imparare a non passare
immediatamente all’atto),
* avviare pratiche utili per affrontare i conflitti in modo creativo.
Le attività più indicate, i momenti più adatti, le modalità maggiormente proficue andranno studiate e sperimentate scuola per scuola, classe per classe.
Non è serio proporre inesistenti ricette per depotenziare l’aggressività, il bisogno smodato di apparire, di considerare NOI meglio di LORO e quasi in diritto, quindi, di sbeffeggiarli e maltrattarli … “così, per una bravata!”
Curiamo il contesto, curiamolo quotidianamente!
Filippo Furioso
Dirigente Scolastico
I.C. Leonardo da Vinci, Torino
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