In un libro di Paola Mastrocola (“La scuola spiegata al mio cane” Guanda, Parma 2004), si legge testualmente: “La scuola che si adegua è la scuola che non fa lezione, ma brainstorming e uscite didattiche; non boccia, ma recupera (anche se non sempre ci riesce n.d.r.); non chiede, ma offre; non segue programmi, ma percorsi, non fa letteratura, ma comunicazione.... evita all’allievo la frustrazione del libro bianco; l’umiliazione di avere un professore sapiente; la fatica di imparare delle nozioni; l’imbarazzo di prendere 4 in pagella; l’impegno di fare cose difficili; la noia di leggere un libro troppo lungo.”
Ecco, in sintesi, uno spaccato della scuola attuale: scuola facile per tutti.
È giusto che la scuola, specialmente quella dell’obbligo, sia aperta a tutti, ma non è affatto giusto e profondamente diseducativo che gli educandi siano mandati avanti tutti anche senza merito e che siano “todos caballeros”. Abbiamo dimenticato che la scuola è fatica, sacrificio e conquista. Si dice: la vita li selezionerà.
La vita, a volte, non seleziona nulla, manda avanti i raccomandati mentre i “capaci e i meritevoli” non sempre riescono ad avere successo. E se lo hanno, lo conseguono a costo di notevoli sacrifici e per doti personali innate.
Dunque la scuola è malata; d’altra parte è lo specchio della società, ormai composta di famiglie disgregate e basata sul piacere istantaneo, sui reality, sul sesso, con messaggi di violenza inaudita che spesso molti alunni, vittime degli influssi televisivi e delle playstation, tendono ad imitare.
E allora non c’è rimedio?
No, è ancora possibile che la scuola torni ad essere “fucina del sapere”.
Ma ad alcune condizioni, tra le molte possibili:
- Che lo stato metta la scuola e la ricerca tra le priorità assolute, dando però direttive precise e coraggiose.
- Che lo stato invogli con retribuzioni più consistenti i giovani (anche maschi, data la femminilizzazione eccessiva della classe docente) ad abbracciare la carriera dell’insegnante, inserendo nel contempo gradualmente in ruolo il precariato abilitato, abolendo le SIIS e ripristinando i concorsi ordinari (l’ultimo è del 2000!).
- Che la classe docente si renda conto dell’impegno civile e morale cui è chiamata, lasciando perdere il “pedagogese” e torni ad insegnare l’educazione (sic et simpliciter, non solo quella civica), le nozioni (non un certo nozionismo sterile degli anni Cinquanta), premiando i migliori e recuperando i recuperabili.
- Che si impieghi meno tempo in riunioni verbose e più tempo nella didattica e nella cultura, mentre i genitori facciano i genitori e non gli avvocati difensori dei figli.
- Che la scuola torni ad essere “l’insegnante insegna e l’alunno apprende”; tutto il resto è residuale ed è in funzione di questo assioma.
Certo che le difficoltà da superare sono molte e i problemi che ho esposto non sono gli unici da risolvere essendo lo specchio di una realtà più complessa, e allo stesso tempo la società non si cambia in tempi brevi; ma io oso fare una proposta: perché la scuola, intesa come istituzione, non si fa essa stessa promotrice di una reazione alla realtà circostante e con un sussulto d’orgoglio non presenta un’alternativa di vita, di valori e di saperi? Certo che la scuola non è tutta fatta di capitani coraggiosi, ma questi ci sono e da loro ci si aspetta il sussulto...
Si dirà “siamo all’utopia”... La mia è semplicemente una provocazione di un vecchio uomo di scuola che vede “la creatura amata” degradarsi sempre più. Perché non reagire?
Mattia Ferraris - ex ispettore scolastico
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