Il mio primo libro di lettura recitava proprio così, che la maestra era una seconda mamma. Era il 1961; frequentavo la prima elementare a Torino, in una scuola lugubre che, giusto per incoraggiare gli scolari, oltre ai vari busti bronzei di grandi spiriti barbuti, uno più torvo dell'altro, riportava fuori di ogni aula una lapide a ricordo dei morti della Grande Guerra. Un posto che continuava nella mia esperienza quella del cimitero di None dov'era sepolto mio nonno. Con la differenza che laggiù regnava una pace che a scuola non conoscevo.
La maestra si chiamava Dolores, e prima che a leggere e scrivere m'insegnò il potere del terrore. Una donna alta, secca come un'aringa, arida come un deserto, cattiva come una bestia ferita. Lanciava strida acute che traversavano l'aria come colpi di frusta, umiliava con insulti e sarcasmo chi non capiva, appioppava schiaffi prima o poi a tutte: alle torpide per svegliarle, alle diligenti perché non mollassero.
Si salvava da questo trattamento soltanto una che abitava vicino a lei e il sabato le offriva un passaggio sull'auto del padre. Un paio di birichine che chiacchieravano volentieri pagavano a caro prezzo la loro vivacità: stavano in ginocchio delle mezze ore a fissare le commessure del pavimento e si vedevano negato il permesso di andare al gabinetto per tutta la mattinata. Ognuna di noi doveva avere in dotazione un paio di mutande di ricambio nella cartella perché, comunque, non ci era consentito uscire se non una volta: nella ricreazione delle dieci e trenta. I quaderni, rigorosamente di marca Super Cigno, dovevano essere illustrati con disegni benfatti: provvedessero i genitori ai ritocchi.
Se alla fine colpiva come un pugno il tratto adulto, pazienza: importante era l'aspetto. A me disegnare piaceva; se non ero in grado di rappresentare soggetti difficili, cedevo la matita a mio papà, che in disegno se l'era sempre cavata bene; ma a riguardare adesso i quaderni di allora mi accorgo che i bambini che lui mi faceva somigliavano ai balilla della sua infanzia (che la maestra aveva l'aria di apprezzare molto).
I quaderni di aritmetica erano una croce per alunne e genitori: la Dolores infatti aveva l'estro di assegnarci come compito a casa le tabelline illustrate con mani, soldatini, automobili, carciofi, conigli. "Se no mi fanno tutti le palline o le bandiere", diceva con un ammicco astuto. E le madri diventavano pazze a scopiazzare soldatini storpi e a moltiplicarli per otto.
Più di tutte soffriva la mamma delle gemelle, che doveva produrre tutto in due copie, e a casa aveva un altro figlio più piccolo cui badare. Finché la pollivendola del corso ne ebbe abbastanza e andò a parlare al direttore: lei non poteva passare il pomeriggio a disegnare fantini e nanetti, ché aveva polli e agnelli da vendere; e se andavano bene le mele o le palline fatte dalla bambina, bene; altrimenti l'avrebbe mandata in un'altra scuola.
Trovò un santo ad ascoltarla, un uomo di grande cultura e profonda umanità che, senza scendere a penosi commenti, le lasciò capire di essere rattristato anche lui da certi metodi. Tuttavia l'insegnante era una professoressa di lettere in attesa di spiccare il balzo verso una cattedra di sua competenza; e non si poteva che augurarle di coronare presto il suo sogno, per la sua stessa soddisfazione, naturalmente...
Un mattino di pioggia torrenziale la maestra arrivò fradicia e furibonda. Sedette bene in vista e tolse dalle scarpe i piedi ossuti, poi si sfilò le calze. Rimase lì davanti a noi con la carne bianca spolpata di un eremita ad asciugarsi in uno straccio preso dall’armadietto; e siccome tacevamo raggelate dalla sua rabbia e impietrite dallo spettacolo, a un tratto ci apostrofò: "Beh?! Non avete mai visto una donna che si cambia le calze?... Un bambino è saltato in una pozzanghera e mi ha bagnata tutta. E la madre non è neanche stata capace di dargli uno schiaffo!"
Non mossi un muscolo del viso, ma mi sentivo un ventilatore nel cuore. Non sapevo chi fosse il monello, ma gli avrei regalato tutte le mie figurine di Sivori per ringraziarlo.
Arrivava a quel tempo nelle classi un giornalino di poche pagine, "La Via Migliore", una pubblicazione a cura della Cassa di Risparmio che ne diffondeva alcune copie da distribuire ai più meritevoli. Eravamo trentatré scolare contro due o tre giornalini. La via migliore sarebbe stata leggerlo insieme con la maestra e condividerlo come un'esperienza in comune. Invece diventava un'occasione di competizione e di odio che ci separava e avvelenava il sangue. Ricordo che per meritarlo, una volta, avevo fatto i salti mortali: grafia leggera, nessuna sbavatura del pennino scanalato, disegno pulito, zero errori ortografici, nessuna orecchia. Molto bene, scrisse in rosso. E mi consegnò il giornalino.
Lasciai il quaderno sulla cattedra, con gli altri. Non avevo finito di sfogliare sul mio banco il mio premio, di capacitarmi che fosse toccato proprio a me dopo averlo tanto desiderato, che la maestra mi chiamò vicino a lei: "Non mi ero accorta di una cancellatura. Restituiscimelo. Lo avrai un'altra volta, se non farai correzioni". A casa piansi. Non a scuola, perché, a costo di resistere coi denti, quella soddisfazione in classe non gliel'avrei data: né per uno schiaffo né per un giornale negato. Avevo già visto troppo bene quel sorriso da strega di Hansel e Gretel che le usciva quando piangevamo e, non potendo ribellarmi, l'unica arma era non farla ridere. A un certo punto, mio padre, distrutto dal mio dolore (e forse anche stufo) disse a mia madre: "Ma non lo vendono in edicola 'sto giornalino?". Non lo vendevano. Era un'edizione fuori commercio.
Il momento più bello della scuola era l'uscita; ed ero contenta che mio padre non avesse la macchina, perché mai, mai avrei voluto seduta accanto a me, oltre l'orario del dovere, oltre la campanella gloriosa della liberazione e il portone aperto sull'aria grigia ma sana di Torino, la mia "seconda mamma".
Valeria Amerano
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