Era di gran lunga il più penoso dei sacramenti che potessero piovere sulla testa di una bambina di sette anni sincera, sensibile, facile al rimorso e amante della luce quale io ero.
A un tratto della mia vita trasparente, dove ogni cosa non condivisa con la mamma pesava come una colpa e quindi veniva riferita, ammessa al più presto per essere in grazia con lei e dunque col mondo, ecco il precetto oscuro da compiersi al buio, in ginocchio, davanti a una grata puzzolente di fiati dietro la quale respirava, bofonchiava, ascoltava e giudicava un uomo sconosciuto, un non papà, un non nonno, un prete appollaiato al riparo di una tenda viola.
Già all'esterno il confessionale era uno stambugio inquietante: coi suoi gradini di legno sonori, i fregi cupi, il colore nero, i tramezzi che ispiravano la morte, il terrore e il castigo: una struttura che ricordava vagamente quella dei vespasiani lungo le vie, ma assai meno comprensibile e, studiata, mi pareva, per obbligare ad accomodarsi chi non ne avesse voglia. Dunque per ricevere l'ostia occorreva prima di tutto fare l'esame di coscienza, tremare di paura e vergogna, inventarsi qualche peccato omologato da dare in pasto al confessore, mettersi in coda col batticuore nell'attesa del proprio turno, non inciampare negli scalini e fare bene attenzione (questa la raccomandazione igienica di mio padre, più urgente dell'elenco minuzioso di tutti i peccati) a non applicare le labbra sulla grata per non buscarsi un'altra malattia. Ma come?! Non bastava il sacramento a proteggere da ogni male!?..."Tu comincia a non sfiorare con la bocca la grata, e sarà tanto di guadagnato". "Ma se non mi avvicino con la bocca, devo parlare forte e fuori mi sentono". "Meglio che qualcuno senta piuttosto che ti venga la febbre"... Col cuore in gola strizzavo un occhio come un tiratore scelto per vedere se il penitente di là avesse finito; mi sforzavo di udire, se non le parole, almeno il tono della voce per capire se mi fosse toccato un prete stizzoso o conciliante; finché sentivo stridere la cerniera del mio sportello e mi compariva il ritratto bucherellato del mio giudice.
"Ma cosa devo dirgli?". La mamma a casa mi aiutava a ricordare tutto quello che non avevo fatto: ho risposto male, ho detto le bugie, mi è scappata una parolaccia... Quando l'unico peccato vero, forse, quello di cui non ero neppure cosciente, sarebbe stato: "Non vengo volentieri qui, don Qualcuno. Lo faccio perché sono costretta, e credo che lei sia un ficcanaso. Se Dio vede tutto e legge dentro di me, perché devo inginocchiarmi al buio e raccontare a un estraneo nascosto come un ladro tutto quello che l'affanno m'impedisce di ricordare?..."
Veniale o mortale? Il libretto di catechismo era pieno di diavoli pronti a trascinare nelle fiamme un fanciullo bieco, col cuore macchiato del catrame dei peccati mortali. L'angelo custode del bambino il cui cuore era solo intossicato dai vapori grigi dei peccati veniali piangeva con lo sguardo straziato implorando la salvezza del piccolo peccatore. Tra comandamenti, peccati e castighi illustrati era un catalogo di orrori. La Parrocchia di Santa Rita, negli anni Sessanta, aveva sacerdoti giovani e simpatici... Ma a me confessarmi non piaceva lo stesso.
Valeria Amerano
- Versione adatta alla stampa
- 7581 letture