Pubblicato su Associazione Magistrale Niccolò Tommaseo (http://associazionetommaseo.it)

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Nuova Vita Magisrale (488 - aprile 2017)

Si rende disponibile in allegato il numero 488 del notiziario associativo uscito nel mese di aprile 2017.

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In memoria di Lia Ferrero

di Valeria Amerano

Abbiamo perso Lia Ferrero. Inaspettatamente, come accadono le cose che ci lasciano senza parole a ricevere il colpo e a far posto dentro di noi a una realtà dolorosa, inspiegabile. Possiamo dire una vita interrotta in iniziative avviate, discorsi aperti, riflessioni che di volta in volta eravamo desiderosi di leggere sul notiziario per comprendere a fondo i problemi della scuola odierna e orientarci. Una intelligenza viva cui porre domande: di scuola o di vita; Lia Ferrero non era soltanto la professoressa, l’Ispettrice Tecnica a riposo. Non riposava per nulla: la ricercatrice scrupolosa e attenta continuava a studiare; aveva concluso la pubblicazione dei testi “Itinerari di apprendimento per la progettazione didattica della Storia” - Edizioni Il capitello, per insegnare la Storia nella scuola primaria; partecipava alla formazione degli insegnanti, ci illuminava con i suoi articoli sulla educazione degli alunni alla Cittadinanza. Trovava tempo da dedicare al volontariato presso la sua parrocchia. Una signora raffinata, colta, discreta e infinitamente umile, disposta all’ascolto, alla reciprocità.

Le parlavo e avevo davanti l’amica, la sorella maggiore, un sorriso accogliente e sincero che mi sembrava di conoscere da sempre: la nobile gratitudine di chi apprezza ogni minimo gesto di confidenza, di affetto e lo ricambia. Chissà quante volte con lei non avrò usato le espressioni giuste, sarò uscita dalle righe con la mia improntitudine… Mi avrà scusata, spero, con la pazienza che le ammiravo e il senso dell’umorismo che percorreva appena le sue frasi come una corrente interna vitale. Aveva uno spirito sottile nel modo di raccontare lento e puntuale che era per me sorpresa e complicità.

Il cavallo di battaglia della formazione

di Gianluigi Camera

Stampa e mass media hanno dato voce, ad inizio d’anno, al non indifferente problema degli spostamenti di docenti, al ritardo delle nomine, al non rispetto della continuità didattica. Problemi seri, gravi, in parte ancora irrisolti e destinati a protrarsi nel tempo. Poi il silenzio, come se null'altro ci fosse da documentare nel mondo della scuola.

Eppure alcune grosse novità si sono verificate in campo educativo in questo primo quadrimestre di attività. E non tutte negative, anzi qualcuna decisamente positiva. Alludo al Piano triennale di formazione dei docenti (2016/2019) previsto dalla legge sulla Buona Scuola e totalmente ignorato perché forse positivo e difficile da strumentalizzare. Il Piano fu annunciato l'ottobre scorso dall'allora Ministra Giannini ed è ora in fase di primo impatto nelle nostre Istituzioni. Si legge nel Comunicato stampa ministeriale: “La qualità dell'istruzione non può mai prescindere da quella dei docenti. Proprio per questo le aspettative nei confronti dei docenti sono molto alte. Ci aspettiamo che abbiano una profonda conoscenza di ciò che insegnano che siano appassionati che sappiano coinvolgere gli studenti, che sappiano rispondere ai loro differenti bisogni che promuovano l'inclusione e la coesione sociale…”. Il Piano finanziato complessivamente con 1 miliardo e 400 milioni nel triennio è rivolto ai 750.000 docenti e ai dirigenti delle scuole di ogni ordine e grado per i quali la formazione diventa, come previsto dalla legge, obbligatoria, permanente e strutturale. Finalmente una presa di posizione sicura per superare l'ambiguità contrattuale, frutto di un compromesso tra i pochi soldi offerti ai docenti ed il ridotto impegno richiesto.

Il Piano prevede nove priorità nazionali da perseguire nel triennio: Lingue straniere; Competenze digitali e nuovi ambienti per l'apprendimento; Scuola e lavoro; Autonomia didattica e organizzativa; Valutazione e miglioramento; Didattica per competenze e innovazione metodologica; Integrazione competenze di cittadinanza e cittadinanza globale; inclusione e disabilità; Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile. Da notare la presenza di importanti tematiche educative che vanno ben al di là dei contenuti disciplinari.

Lo sviluppo del piano presuppone il coinvolgimento di più settori dell'Amministrazione scolastica, dal Ministero che fornisce la cabina di regia generale e che valuterà i risultati raggiunti, all'Ufficio scolastico regionale che coordinerà la gestione generale del piano della regione, alle Reti di scuole che coordinate da una scuola Polo coinvolgeranno gruppi di istituti e scuole singole. Ogni docente si doterà di un piano individuale di formazione che entrerà a far parte di un portfolio digitale atto a documentare nel tempo gli aspetti più salienti della propria professionalità. Il Documento ministeriale - ben 88 pagine - si sofferma a descrivere analiticamente ogni aspetto del progetto e può a ragione essere considerato il più ampio e completo testo mai concepito circa il problema della formazione dei docenti. Per avere un riferimento storico occorre forse risalire agli anni ’70 del secolo scorso quando l'allora Centro Didattico Nazionale per la scuola elementare varò un importante progetto che istituì a livello nazionale la figura della Direzione Didattica Centro di aggiornamento permanente con fondi appositi ed ampia autonomia amministrativa e gestionale. Ma il progetto riguardava il solo settore primario e soli 100 Circoli a livello nazionale.

Intervista al Prof. Claudio Marazzini

di Valeria Amerano

Né racconti né filastrocche, stavolta. Cominciamo dal principio. Cominciamo dal principio per riuscire a immaginare le premesse dell’evento che oggi irrompe col fragore del tuono fra le pagine sonnacchiose del nostro notiziario. E’ il pomeriggio del 12 gennaio 2017. Il Direttivo si ritrova intorno al tavolo lungo, nella luce livida della saletta generosamente prestata dalla storica Scuola Elementare Sclopis alla nostra Associazione.

Sulle pareti: disegni di bambini, un calendario, un orologio, le foto incorniciate dei professori defunti che nei decenni trascorsi prestarono presso la Tommaseo un’opera di formazione e informazione scrupolosa e gratuita per i maestri elementari. Siamo rimasti in pochi. Noi pensionati un po’ ci sentiamo reduci. I colleghi ancora in servizio stanno discutendo intorno ai progetti da presentare nelle scuole. Io, ad essere sincera, mi perdo. M’insinuo in una pausa della conversazione per tirare fuori quello che mi balla in testa da quando sono arrivata: - Sapete dove mi sarebbe piaciuto andare oggi?... Al Teatro Colosseo a sentire il Presidente dell’Accademia della Crusca sul futuro della lingua italiana”.

Sheila mi guarda con aria serena: - Il professor Marazzini! Vuoi metterti in contatto con lui? Ho la sua e-mail… Potresti chiedergli un’intervista per il notiziario.

Resto a guardarla attonita: lo stupore mi toglie la parola vedendola sfogliare tranquillamente un’agenda in cerca di un nome, collocato per me a distanze siderali. Già mi attanaglia l’inquietudine: non ho mai pensato di avvicinare un personaggio così illustre, non ho titoli io, ma intanto mi sfugge: “Sarebbe bello”. Torno a casa con in tasca un biglietto che brucia. Poi penso che il Professore avrà troppo da fare per rispondermi, per rispondere presto; e dunque avrò tutto il tempo di formulare le mie domande. Nei giorni seguenti indosso gli abiti curiali e mi metto a scrivere. Ripercorro tutti gli affanni del piccolo Proust quando doveva partire per Venezia o vedere la Berma al teatro. (Da sempre divido con gli artisti i malesseri ma non il talento). Non è stata una corrispondenza lenta, cari Soci. Il Professor Marazzini ha accolto la mia richiesta e risposto con inimmaginabile tempestività alle mie domande, trascurando sicuramente impegni più importanti. Nel ringraziarlo per il privilegio che ci ha accordato, riflettiamo sulle sue affermazioni e auguriamoci non debba dispiacersi troppo di comparire fra le pagine di un periodico dimesso come Nuova Vita Magistrale.

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La diffusione della tecnologia e l’abilità acquisita dai ragazzi nelle sue varie applicazioni quanto è costata (e quanto costerà) al possesso e all’uso corretto della lingua italiana?
Non sono tra coloro che vedono una contrapposizione tra tecnologia e competenza linguistica. Sono però anch’io testimone di un uso cattivo della tecnologia. Per esempio, sono emerse teorie folli che suggeriscono di non insegnare più la scrittura manuale, perché la scrittura oggi è tutta “digitata”. Ma se esistono alcuni imbecilli che aderiscono a simili teorie, non credo si debba attribuire responsabilità di ciò alla tecnologia in quanto tale, che invece è preziosa: basti pensare all’attuale perfezione dei programmi di scrittura e ai correttori automatici. Questi strumenti vanno però controllati e usati con coscienza: il correttore ortografico è oggi più utile del correttore grammaticale, che invece fornisce non di rado indicazioni discutibili.

Quali sono i fattori che maggiormente incidono sull’impoverimento di una lingua?
Sempre uno sopra tutti gli altri: la scarsità di cultura.

Il progressivo deterioramento dei programmi televisivi ha contribuito ad avvilire il linguaggio?
Sì, senza dubbio. Senza dimenticare, tuttavia, che la televisione è (come i giornali e come Internet) uno specchio della società. Vi si trova di tutto, il buono e il cattivo.

Abbiamo assorbito senza alcuna resistenza termini inglesi quando ne sarebbero esistiti di uguale significato in italiano. Perché, secondo Lei, questo disinteresse a difendere una lingua ricca e sfumata come la nostra?
È uno dei tanti esempi che si possono citare del provincialismo della nostra classe dirigente, soprattutto imprenditoriale. Pesa anche la scarsa lungimiranza di chi crede di non avere bisogno di una nazione, illudendosi che le nazioni siano finite e si viva esclusivamente in una idilliaca dimensione globale. Proprio questa mattina i giornali e i giornali radio raccontano la vicenda delle accuse tedesche all’industria italiana dell’auto: ecco una lezione sui rapporti tra globalizzazione e nazione, per chi sappia intenderla. Del resto basta pensare alla Brexit, piombata sulla testa di chi non era stato capace nemmeno di immaginarne la possibilità. Nel 2015 l’Accademia della Crusca ha pubblicato un libro elettronico (e-book), atti di un convegno svoltosi in Accademia e presso la sede fiorentina della Società Dante Alighieri: il libro confronta la diversa reazione agli anglicismi da parte di varie lingue romanze. L’italiano risulta la lingua più debole e meno reattiva rispetto a francese, spagnolo, portoghese e catalano. La lettura di questo libro credo sia molto utile ( http://www.goware-apps.com/la-lingua-italiana-e-le-lingue-romanze-di-fro... [2] ). Dal convegno è nata anche la petizione di Anna Maria Testa “Dillo in italiano”.

Di quanti vocaboli dispone in media il corredo lessicale di un giovane?
Pare che molti giovani siano confinati nelle 2000 parole dell’italiano “fondamentale”. In pratica, non possono comunicare al di là del livello di sopravvivenza. Il rapporto PIAAC – OCSE 2013 mostra che gli italiani dai 16 ai 65 anni (non solo i giovani, dunque) sono all’ultimo posto per capacità di comprendere un testo scritto (si vedano i commenti dell’economista M. Pellizzari e del linguista A. Moro: http://www.lavoce.info/archives/13368/competenze-degli-italiani-siamo-i-... [3] http://noisefromamerika.org/articolo/competenze-adulti-qualche-dato-piu [4] ).
Io non so se questo rapporto sia affidabile in tutto e per tutto: ma certo anche Tullio De Mauro ne parlava con grande preoccupazione.

Possiamo sospettare che all’eccessiva semplificazione di una lingua si accompagni una superficialità nel pensiero e nell’agire?
Non possiamo “sospettare”, possiamo esserne certi. Un tempo gli incolti sapevano almeno usare in maniera splendida il loro dialetto materno e naturale. Per questo comprendevano bene quale fosse l’obiettivo da conseguire nel passaggio alla lingua nazionale. Il progresso sociale delle classi popolari ha seguito proprio questa strada, al tempo del movimento operaio (basti rileggere le pagine di Gramsci). Oggi l’individuo incolto, privo di una lingua nazionale ben conosciuta, privo del dialetto, spesso è anche privo della coscienza del proprio stato. Si sente appagato e contento. Felice, con il suo telefonino, a cui è appiccicato come a un talismano.

La rapidità della comunicazione ha danneggiato la capacità di esprimere e comunicare compiutamente. Dobbiamo accettarlo come il contrappasso inevitabile della comodità?
È vero che una lettera elettronica (e-mail) o un messaggino possono essere scritti con scarsa cura formale anche da chi è colto, ed è vero che la comunicazione meditata è il vero segreto della qualità. Manzoni, a chi gli chiedeva il segreto dello scrivere bene, rispondeva: “Pensarci su”. Chi ha chiaro tutto ciò, può affrontare con migliore coscienza critica il condizionamento della velocità, che pure esiste davvero. I danni saranno in questo caso limitati.

Cosa può proporre una buona scuola per far amare una buona lingua dagli studenti, pur rimanendo attuale?
Temo che “far amare” non possa essere il risultato di un metodo, ma solo della dote comunicativa di un insegnante dotato della vocazione giusta. Però si può ricorrere, si dovrebbe ricorrere, a figure di insegnanti con formazione migliore di quella di oggi: occorrono più competenze linguistiche e storico-linguistiche. Non basta la formazione letteraria generica. Non basta l’idea che la lettura piacevole (magari di libri di narrativa tradotti da altri idiomi e privi di spessore reale) possa sostituire competenze saldamente costruite su base logica, ai fini di una corretta capacità di comunicare, per iscritto e oralmente.

Claudio Marazzini - Professore ordinario di Storia della lingua italiana e Linguistica italiana nell’Università del Piemonte Orientale, presidente dell’Accademia della Crusca dal 2014, autore di oltre duecento pubblicazioni, condirettore della rivista “Lingua e stile”, socio corrispondente dell’accademia delle Scienze di Torino.

Bullismo e cyber bullismo: il potere di una condivisione

di Laura Emanuel

“La violenza nella scuola …. A cosa vi fa pensare?” I bambini mi guardano seri e riflessivi. Conoscono le regole della discussione in queste nostre attività: nessun riferimento diretto a persone, ascolto reciproco senza contrapposizioni, senza sovrapposizioni, senza nessuna espressione di giudizio, pena l’interruzione immediata del lavoro. Un’alunna risponde “La scuola fa male”. Avevo inteso fosse una domanda e l’avevo scritta alla lavagna con il punto interrogativo, ma l’alunna mi ha corretta “Era un’affermazione!” Ho cancellato il punto interrogativo. Altri compagni aggiungono altre loro esperienze di violenza nella scuola e le scrivo alla lavagna così come le dicono.

Il pensiero che una classe Vª, giunta al termine di un percorso di 5 anni nella scuola primaria, possa aver maturato un’esperienza scolastica così devastante, impone una revisione complessiva di come i riferimenti educativi del territorio e le istituzioni scolastiche abbiano operato e operino ancora nella formazione dei più piccoli. I bambini descrivono il comportamento dei bulli come: “ricatto” “minaccia” “derisione” “isolamento”. Chiedo a questi bambini “Chi sono i bulli nella vostra esperienza scolastica?” I bambini rispondono “i compagni”, “alcune maestre”, “la bidella”, “i genitori”. La violenza nella scuola vista dai bambini assume profondità inaspettate, come un iceberg le cui dimensioni sono molto più profonde di ciò che appare. Perché identificare il bullo nei genitori? Perché nella loro esperienza i genitori formano sotto-gruppi coesi e oppositivi attorno a leader negativi che sistematicamente aggrediscono e prendono di mira altri genitori all’uscita da scuola. Genitori che esortano aspramente i figli contro i compagni avversari durante le partite di calcio. Perché identificare il bullo in un’insegnante? Perché i linguaggi dell’insegnante verso alcuni alunni hanno trasmesso squalifica, disprezzo, umiliazione, discriminazione. Perché identificare il bullo in una collaboratrice scolastica? Perché i bambini hanno ben chiaro che ciò che accomuna i comportamenti dei bulli sono i linguaggi vessatori, i ricatti, le umiliazioni non l’età o la simmetria dei ruoli. Nell’esperienza dei bambini il bullo può essere allora chiunque nella scuola metta in atto comportamenti volti a sopraffare l’altro, a deriderlo, ad isolarlo dagli altri, a beffeggiarlo umiliandolo pubblicamente. Il leader negativo non veste dunque solo le vesti dello studente ma anche quelli dell’insegnante, dei collaboratori scolastici, dei genitori. I media stessi identificano forme diverse di violenza nella scuola come fenomeni di bullismo. Ma occorre distinguere la violenza agita da adulti da quella tra pari. Ho chiesto ai bambini “Com’è il bullo? Come lo descrivereste?”. Le loro risposte sono state come colpi di scalpello di uno scultore da cui emerge una immagine molto nitida: “Il più insicuro”, “una nullità”, “quello che vorrebbe avere potere ma non ce l’ha”, “il prepotente”, “l’incapace”.

Il bullo è una persona che ha paura delle relazioni, che rifiuta la diversità come valore, che considera l’altro un ostacolo al proprio successo, che gode nel vedere fuori di sé, nell’altro, la sconfitta che porta dentro. La vittima si vede isolata, sfidata a sottostare ad azioni contrarie alla sua volontà, calunniata, criticata e sistematicamente messa in ridicolo di fronte agli altri. Sarebbe un errore credere che la vittima fosse il debole; in realtà la vittima deve essere ridotta ad uno stato di debolezza totale proprio perché percepita più forte (fisicamente, psicologicamente, socialmente). Il bullo deve quindi ribaltare l’asimmetria di potere percepita con la persona offesa e per fare questo ha bisogno di dimostrare al gruppo chi è il più forte, ha bisogno di consenso colpendo il bersaglio senza pietà. Gli episodi di bullismo avvengono alla presenza di altri compagni o di adulti, spettatori o complici, perché il bullo ha necessariamente bisogno di ottenere potere dal consenso di chi assiste, traendo rinforzo positivo e legittimazione al suo comportamento. Il bullismo non è mai espressione violenta di un singolo ma azione comune da parte di coloro che assistono e sottovalutano, che sanno ma tacciono, che si aggregano intorno a colui che usa il consenso del gruppo come strumento di prevaricazione per annientare chi non si piega.

Ciò che differenzia il bullismo da una occasionale aggressione è anche la motivazione in quanto il bullo non reagisce ad una provocazione o non colpisce per ira. Il bullo aggredisce per il piacere di assistere all’umiliazione e al dolore del compagno, per il piacere di annullare la sua dignità, la sua stima, per il potere che la paura suscita in chi assiste. Il bullo si compiace nel vedere la paura negli occhi di chi avvilisce e si compiace del timore reverenziale in chi sta a guardare, in chi fomenta le sue angherie per scongiurare la possibilità di esserne a sua volta vittima. L’azione del bullo si avvale di complicità grazie alle quali aggredisce e offende in modo spregiudicato con violenze fisiche e psicologiche, umiliazioni e minacce verbali, costrizioni a compiere atti non voluti, oppure isolando progressivamente il compagno dal gruppo, calunniandolo, deridendolo in sua assenza, rivelando e distorcendo problematiche personali. Il bullismo si nutre di consenso e di valutazioni superficiali di coloro che banalizzano e considerano tali comportamenti normali ragazzate; si caratterizza spesso come un circolo vizioso in cui le azioni del bullo, della vittima, della scuola e della famiglia, si rinforzano a vicenda. Il bullismo è un fenomeno psico-sociale, agito da un violento, subito da una vittima e osservato tacitamente da testimoni che deridono e rinforzano il potere e la violenza del bullo. Chiedo ancora ai bambini in che modo agisce il bullo: il bullo o la bulla “picchia”, “tradisce”, “prende in giro”, “offende”, “deride”, “sparla”, “riferisce cose non vere”, “allontana”. Ciò che fa lo fa da solo? Lo fa di nascosto? La risposta della classe è anche qui molto pronta: “No, il bullo non agisce mai da solo perché ha bisogno di complici”, di quegli osservatori che “gli danno potere”, “quelli che non fanno niente” (che non intervengono) – “però vedono e sanno” – “quelli che non ti aiutano” – “quelli che ti lasciano solo”; ma se tutto ciò avviene nella scuola non si può eludere la responsabilità educativa e sociale dell’insegnante, la sua consapevolezza in relazione agli studenti, il suo livello di percezione del disagio e di competenza nell’affrontarlo. Il comportamento o il linguaggio violento, quando diventa stile di comunicazione e di relazione in classe, non è mai individuale ma è espressione di un malessere che coinvolge tutta la scuola, tutti coloro che operano in essa.

La scuola è luogo in cui si forma l’identità e in cui il bambino può apprendere ad orientarsi e a misurarsi con una complessità di relazioni e di culture differenti. I bambini, i ragazzi, osservano e integrano i modelli educativi, i linguaggi, le culture, con i quali entrano in relazione. Ma come parlare di violenza tra bambini o tra adolescenti quando le relazioni nelle istituzioni educative come la scuola, la famiglia, le organizzazioni sportive, mostrano a volte modelli di linguaggio vessatori, diffamatori, discriminatori? Quando la violenza è espressione quotidiana delle relazioni, dei linguaggi, dei pregiudizi fra adulti, i ragazzi stanno male, sono feriti. Parlare di bullismo allora è utile se interroga la loro esperienza, anche quella dei più piccoli, non solo in relazione ai pari ma anche in relazione agli adulti, nei comportamenti e nei linguaggi di quelle figure di riferimento che i bambini osservano negli ambienti educativi, sportivi, parrocchiali, che dovrebbero proteggerli.

Il bullismo negli ultimi anni ha avuto una forte attenzione mediatica scuotendo il mondo della scuola e suscitando una presa di coscienza collettiva su una violenza spesso sommersa, invisibile, ma che provoca molta sofferenza tra i giovani. La scuola ha da sempre cercato risposte metodologiche volte all’integrazione e alla promozione di un clima cooperativo fra gli studenti, tuttavia le dimensioni raggiunte oggi dal bullismo e dal cyber bullismo, nel mondo reale come in quello virtuale, l’escalation di suicidi da parte di adolescenti che ne sono vittime, ha destato una maggiore attenzione sociale e richiesto mirati interventi di sistema scuola-famiglia-territorio. Nel 2014, poco più del 50% degli 11-17enni ha subìto qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di altri ragazzi o ragazze nei 12 mesi precedenti. Il 19,8% è vittima assidua di una delle “tipiche” azioni di bullismo, cioè le subisce più volte al mese. Per il 9,1% gli atti di prepotenza si ripetono con cadenza settimanale (Il bullismo in Italia: comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi Anno 2014 http://www.istat.it/it/files/2015/12/Bullismo [5]).

La scuola è il mondo di relazioni in cui il bambino costruisce la propria rete sociale in cui apprendere a dialogare, mediare coi compagni, scoprire modi diversi di essere e di pensare superando stereotipi e pregiudizi. Tuttavia la scuola può fare molto male, può ferire, può essere un luogo di violenza, vissuta con dolore. La violenza che fa male è quella inattesa, spesso legittimata, che serpeggia latente, che si nasconde tagliente nei pregiudizi, che allontana e umilia. I modelli educativi adulti costituiscono quel contenitore di riferimento nel quale apprendere il limite e le possibilità, i vincoli e i modi di superarli con la collaborazione. Là dove i linguaggi della violenza umiliano i primi passi verso l’altro, dove l’insicurezza genera paura del fallimento, nascono e si sviluppano relazioni negative volte ad acquisire il potere e il consenso. Il bullismo è solo una delle forme di violenza che avvengono nella scuola e ha caratteristiche specifiche (Olweus, 1999; Menesini, 2000). Dan Olweus, professore di Psicologia all’Università di Bergen ha dato una definizione molto precisa del bullismo: “Uno studente è oggetto di azioni di bullismo quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da uno o più compagni” (Dan Olweus, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono. Giunti, Firenze, 1996).

Il significato italiano del termine bullismo deriva dall’inglese bullying con il quale si definiscono prepotenze, soprusi e violenze di tipo anche fisico (Menesini E. Il bullismo a scuola: sviluppi recenti. http://www.rassegnaistruzione.it/rivista/rassegna_0102_2008/RAGIONAMENTI... [6]) tra pari di fronte ad un gruppo. Sharp e Smith (1994) lo definiscono un “abuso tra pari”. Il bullismo consiste in un lungo processo in cui il sistema delle relazioni tra pari si caratterizza sempre di più in una serie ripetuta di comunicazioni negative improntate a ruoli di potere e di controllo. Il comportamento del bullo è intenzionale, volutamente mirato all’umiliazione e alla distruzione psico-sociale della vittima che viene percepita come oggetto da colpire senza indugi per dimostrare al gruppo il proprio potere e la propria forza. Il bullo agisce in modo premeditato e spregiudicato, senza pietà, sapendo di arrecare offesa e danno al compagno. Come alcuni studi internazionali hanno evidenziato (Olweus 1993, 1996, Fonzi 1997) il bullismo si esprime in comportamenti vessatori oppressivi, umilianti, reiterati nel tempo, persistenti, sistematici e frequenti, mirati ad annullare psicologicamente la capacità reattiva della persona, ad indurla all’isolamento dai pari.

I comportamenti vessatori di carattere persecutorio sono attuati in un contesto di gruppo in cui si rafforzano gli effetti devastanti sulla vittima e possono avvenire nelle aule scolastiche, sugli scuolabus, negli spazi ricreativi e ludici, ma sempre più spesso superano i confini delle comunità di vita, utilizzano la velocità, lo spazio virtuale dei media digitali e i contatti della rete per raggiungere e coinvolgere un numero imprevedibile di persone. La rete potenzia lo spazio della comunicazione e permette di costruire una platea di consensi (basta cliccare un mi piace) di portata dilagante e incontenibile, protetta dall’anonimato. Il bullismo diventa virale (cyberbullying) attraverso le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione economicamente accessibili per i ragazzi e molto diffuse. Tali strumenti digitali consentono un dilagare incontrollato di vessazioni filmate e inviate alla rete, coinvolgono un numero sempre maggiore di testimoni compiacenti, rendono pubbliche le umiliazioni con messaggi, immagini, video, grazie all’anonimato e all’invisibilità degli autori. Il Cyber-bullismo, attraverso chat e pubblicazioni sui social network, raggiunge la vittima in qualsiasi momento della giornata, invade la sua privacy e la sua intimità con minacce, derisioni, calunnie, immagini compromettenti, entra nella sua quotidianità, diventa azione pubblica nel villaggio globale attraverso un numero sempre maggiore di condivisioni e di consensi. Proprio l’impersonalità, la distanza emotiva, il numero di persone che possono assistere all’episodio vessatorio senza prenderne parte, la forza mediatica di messaggi scritti, di foto o di filmati rispetto a situazioni di interazione faccia a faccia, rendono particolarmente gravi i danni psico-sociali del cyber bullismo per la vittima (Campbell - 2005; Gini - 2005; Oliverio Ferraris - 2006).

Oggi emerge una maggiore sensibilità al bullismo e al cyber bullismo: sono molte le iniziative promosse dagli Uffici Scolastici Regionali in collaborazione con le istituzioni del territorio per promuovere consapevolezza e contrastare sul nascere i comportamenti vessatori. Sono importanti tutte le iniziative di informazione nelle scuole attraverso le testimonianze di chi ne è stato coinvolto, benché ci sia il rischio, se non inserite in una strategia di costante osservazione e relazione educativa in classe, a scuola e in famiglia, di chiudere il sipario sulle esperienze reali, quelle quotidiane dei bambini e dei ragazzi, quelle che sfuggono al racconto ma si sviluppano velocemente sotto i nostri occhi. Il Ministero dell’Istruzione ha introdotto importanti misure legislative mirate ad informare, formare, coinvolgere gli attori della scuola al fine di attuare azioni di sistema integrate volte alla prevenzione e al contrasto di ogni forma di violenza nella scuola. In particolare attraverso le Linee Guida per la prevenzione del bullismo (Direttiva n. 16/2007) si è sottolineata l’importanza di un approccio scolastico al problema, si è definita una linea operativa comune nella prevenzione e nel contrasto al bullismo. Nell’aprile 2015, il Ministro Stefania Giannini ha pubblicato le Linee di Orientamento per la prevenzione e di contrasto al bullismo nelle scuole a cui sono seguite Indicazioni operative per la loro attuazione attraverso nuovi ruoli e compiti assegnati ai CTS. Con questi strumenti il MIUR ha introdotto una riorganizzazione degli Osservatori Regionali Permanenti sul Bullismo, istituiti con la D.M. n.16 del 5 Febbraio 2007 e attivi presso gli Uffici Scolastici Regionali. L’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte ha sviluppato azioni sistemiche di contrasto al bullismo come la nomina di referenti per le attività di prevenzione e contrasto del bullismo e del cyber bullismo nelle scuole e azioni volte a favorire un uso sicuro e consapevole della Rete. Il 7 febbraio 2017 è stata inaugurata la prima “Giornata nazionale contro il bullismo a scuola”. Le azioni elencate sono sviluppi molto importanti perché attivano l’attenzione di tutti; tuttavia per contrastare il bullismo occorre innanzitutto verificare gli stili di comunicazione legittimati all’interno della scuola, a cominciare dalla dirigenza e da tutto il personale che opera nell’istituzione, i linguaggi tra DS, insegnanti e personale ATA, tra insegnanti e genitori, tra insegnanti e alunni. Contrastare il bullismo significa riconoscerne gli indicatori fin dalle prime classi della scuola primaria, conoscere gli elementi costitutivi che lo differenziano da altre forme di violenza. A scuola non basta parlare di bullismo, occorre riconoscere i comportamenti individuali ed organizzativi di cui si alimenta e da cui si sviluppa all’interno delle strutture educative e nei territori in cui sono inserite, senza illudersi che riguardino altri. Occorre fare un passo avanti, occorre fare sistema fra tutti gli attori coinvolti nell’educazione dei ragazzi, per evitare che l’efficacia di queste misure si estingua in uno spot mediatico, o in una testimonianza estemporanea. In un mondo globalizzato, tecnologico e individualista, quando vengono meno le forme di controllo collettivo, proprio delle comunità integrate regolate da norme, usi e costumi condivisi, la consapevolezza e la preparazione richiesta alle figure educative e alla scuola è maggiore rispetto al passato (Anna Oliverio Ferraris 2017).

Prevenire il bullismo significa identificare le condizioni che ne favoriscono lo sviluppo o che contrastano sul nascere qualsiasi consenso a tali azioni, da parte di tutti: la qualità della comunicazione nella scuola, la positività e la fluidità delle relazioni, i linguaggi e i comportamenti legittimati dalla leadership e dagli insegnanti, l’osservazione attenta e partecipe da parte delle figure educative. Prevenire il bullismo richiede la capacità di favorire un ambiente di apprendimento interculturale dove tutti possano sperimentare sé e l’altro come risorsa, come valore, superando stereotipi e pregiudizi, sviluppando prossimità, vicinanza, confronto e collaborazione. La scuola consapevole della propria responsabilità sociale è una scuola che dà valore alle relazioni e alle persone, che usa la tecnologia con i ragazzi senza averne paura, mostrando loro i falsi idoli della rete e il potere mascherato di una condivisione su internet.

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[1] http://associazionetommaseo.it/sites/default/files/NVM488_apr2017.pdf
[2] http://www.goware-apps.com/la-lingua-italiana-e-le-lingue-romanze-di-fronte-agli-anglicismi-claudio-marazzini-alessio-petralli-a-cura-di/
[3] http://www.lavoce.info/archives/13368/competenze-degli-italiani-siamo-i-peggiori/
[4] http://noisefromamerika.org/articolo/competenze-adulti-qualche-dato-piu
[5] http://www.istat.it/it/files/2015/12/Bullismo
[6] http://www.rassegnaistruzione.it/rivista/rassegna_0102_2008/RAGIONAMENTI%20pag%2051RDI_1_128.pdf