Si rende disponibile in allegato il numero 487 del notiziario associativo uscito nel mese di dicembre 2016.
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di Gianluigi Camera
A tutti noi è successo di assistere agli effetti di una discrasia dovuta all'impatto di un progetto teorico con la concretezza della sua pratica attuazione: si generano impreviste difficoltà, difetti di approccio, imprevisti risultati negativi. E questo in ogni campo del vissuto personale o storico, dai sogni adolescenziali alle utopie politiche, dalle scelte professionali alla elaborazione di progetti innovativi. Più il disegno teorico è vasto e impegnativo più si rivolge ad una realtà multiforme e complessa e più crescono gli incidenti di percorso e le conseguenti delusioni. È un rischio che bisogna avere il coraggio di correre, l'alternativa è l'accettazione acritica dello status quo.
La scuola ed i suoi riformatori, come ogni realtà vivente, non sfuggono a questa inesorabile legge del cambiamento. Cambiare significa progettare una cosa nuova in assenza di una assoluta certezza che il progetto si innesti in modo indolore e prevedibile nella realtà che si intende modificare. Di fronte a questo stato di cose gli osservatori assumono atteggiamenti contrastanti. C'è chi prende spunto per una totale negazione del nuovo ed auspica un ritorno al passato: “era meglio quando era peggio”. C'è chi accoglie in modo entusiastico il nuovo comunque esso sia. Infine c'è chi pensa che occorra lubrificare i punti di attrito, dare tempo al tempo, accettare l'innovazione promuovendo gli opportuni accomodamenti.
Di fronte alla legge 107 è avvenuto un fenomeno del genere. Nessuno può negare che “La buona scuola” abbia rappresentato un intervento a 360° nel mondo della scuola, quale non si era mai verificato negli ultimi decenni. Proprio per questo fatto gli attriti tra il progetto e la realtà si sono fatti più eclatanti e problematici.
La possibilità di immissione in ruolo di 150.000 docenti ha dovuto fare i conti con le Graduatorie ad esaurimento ed i tempi dei concorsi che hanno coinvolto masse di precari trascurate da decenni. Tutto ciò ha inesorabilmente provocato spostamenti di personale dovuti alla sproporzione storica tra posti di insegnamento e presenza di docenti tra le diverse aree del paese. I detrattori hanno gridato alla “deportazione di massa”. Ma allora era meglio per la scuola e per gli addetti ai lavori una precarietà permanente sotto casa o un lavoro certo, anche se scomodo, fatte salve future migliori sistemazioni? Ancora. L'organico dell'Autonomia ampliato è stato progettato come occasione per arricchire l'offerta formativa, ma non sempre la specializzazione dei docenti nominati è stata congruente con la specificità delle esigenze di ogni scuola e ha visto l'addensarsi di docenti non rispondenti alle attività previste dai POF. Ma il vantaggio di disporre di un organico maggiorato è stato comunque formalizzato. Nei futuri concorsi sarà possibile differenziare, almeno per grandi aree, il fabbisogno delle scuole.
Gli esempi sopra riportati, ma molti altri se ne potrebbero citare, non ci autorizzano a gettare “il bambino con l'acqua sporca”. Non ci autorizzano ad accettare tutto acriticamente. Ci impegnano ad attuare per proporre documentate, realistiche modifiche.
di Elena Zegna
Desidero presentare e ai nostri Soci e Lettori il magnifico articolo della dottoressa Elena Zegna la quale, partendo dalle riflessioni dello scrittore Daniel Pennac intorno alla ricerca di un metodo efficace per accostarsi agli alunni, interessarli e coinvolgerli nell’apprendimento scolastico, suggerisce con molta “pudicizia” di coltivare nel processo d’istruzione l’amore.
Attraverso una ricca gamma di voci che attestano la sua preparazione pedagogico letteraria, Elena Zegna affronta e sviluppa un tema accantonato e diventato a torto desueto nella scuola, travolto dalle moderne proposizioni didattiche: l’approccio empatico ed affettivo con i ragazzi che si affidano all’insegnante per crescere e imparare. Condividendo in pieno la sua tesi, aggiungo che, nell’ambito di una classe, solo l’ascolto e la ricerca di un dialogo, oltre ogni schema di programmazione preordinato, possono condurre gli alunni alla riflessione - attività che la comunicazione immediata delle emozioni, instaurata dalla tecnologia, sta a poco a poco eclissando anche fra gli adulti.
Ringraziando la dottoressa Zegna per il suo intervento, la invito a voler onorare ancora il nostro periodico del suo autorevole pensiero.
(Valeria Amerano)
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Sarebbero molteplici i motivi per i quali ringraziare lo scrittore Daniel Pennac, dalla sua prodigiosa creatività alla sapiente fluidità del suo stile, dal ritmo perfetto dei suoi romanzi all’equilibrata sobrietà di tante sue pagine.
Ma in questo caso il senso di gratitudine espresso nel titolo nasce da una pagina in particolare, una di quelle pagine che, in mezzo alle altre, sorprendono e colpiscono per il coraggio e per la profonda verità che le detta, per la saggezza e, al contempo, per la semplicità disarmante che le caratterizza. Daniel Pennac - Diario di scuola: ….‟C’è un metodo?/ Non mancano certo i metodi, anzi, ce ne sono fin troppi! Passate il tempo a rifugiarvi nei metodi, mentre dentro di voi sapete che il metodo non basta. Gli manca qualcosa/ Che cosa gli manca?/ Non posso dirlo/ Perché?/ Cosa gli manca?/ Non posso dirlo/ Perché?/ È una parolaccia… una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola…/ E cioè?/ No, davvero non posso. Se tiri fuori questa parola parlando di istruzione ti linciano/…/…/…/ L’amore”.
E, per il medesimo motivo, grazie anche a Harry Holzheu, “il re della comunicazione”, come viene spesso definito. Ho avuto occasione di conoscere questo interessante personaggio preparando dispense per un corso di formazione docenti. Holzheu, che a livello internazionale, insegna da anni come migliorare il proprio modo di affrontare il pubblico puntando su un ascolto attivo, sull’attenzione alla gestualità e all’uso della nostra voce… Holzheu, che scrive della convinzione, dell’entusiasmo, dell’abilità di coinvolgere, di risultare credibili, autorevoli e naturali al tempo stesso… ebbene Holzheu, uno tra i più ricercati consulenti europei, conclude, a sorpresa, un suo saggio sulla comunicazione riportando una poesia di Lao Tze sull’importanza di illuminare tutto con l’amore… e aggiunge: “L’amore è la forza più grande del mondo: può spostare le montagne e compiere miracoli (…) se non riusciamo a rimanere agganciati all’amore tutto andrà storto…”.
E grazie a Piero Ferrucci, filosofo e psicoterapeuta, che in un libro ormai datato, parlando di se stesso alle prese con i disarmanti capricci del suo bambino, scrive: “Le spiegazioni e le minacce non funzionano, gli animi si sono avvelenati. Non so più che fare… Poi mi ricordo dell’amore… riesco ad entrare in contatto con quel lumicino di amore che ancora mi è rimasto. In mezzo alla baraonda sento l’amore che ho per questo bambino… l’importante è che nel mezzo della bufera, dell’ansia, della rabbia… io sia riuscito a trovare l’amore. È questa la vera vittoria”.
Si potrebbe proseguire con altri autori e con altre citazioni, ma forse è già intuibile ciò che intendo dire. Penso che l’importante sia che noi insegnanti, al di là della lunga o breve esperienza, al di là dei corsi di aggiornamento e delle novità in merito alle valutazioni, riusciamo a ricordarci di illuminare ogni giorno la nostra professionalità, o forse dovrei dire la nostra missione, con questo ingrediente così unico, così vincente e così decisivo anche e soprattutto nei casi più disperati.
Un approccio illuminato dall’amore si può tradurre in mille gesti, strategie, idee e iniziative e sicuramente ognuno di noi avrà sperimentato modalità differenti.
Per esempio può significare decidere di parlare personalmente, oltre l’orario-cattedra, con quel ragazzino spinoso, che ci dà del filo da torcere in classe con il sincero desiderio di comprendere meglio che cosa lo tormenta e di dedicargli un po’ di attenzione in più, perché forse ne ha bisogno. Può voler dire decidere profondamente di farci rispettare da tutta la classe per avere modo di vivere serenamente le lezioni ed avere così la possibilità di traghettare con gioia i nostri alunni nel mondo del sapere, regalando anche sorprese ed esperienze che siano preziose in classe e indelebili nei loro ricordi.
Ma si intuisce la presenza di un atteggiamento illuminato dall’amore anche nel desiderio di trasformare quel nostro essere un po’ monocordi nelle spiegazioni o di rinnovare, con qualche sana variazione sul tema, il modo in cui affrontiamo un argomento della nostra disciplina, cercando di evitare di usare un tono scontato, che presuppone qualcosa di ovvio, che però per gli allievi proprio ovvio non è… cercando di aggiungere una battuta di spirito perché talvolta ci dimentichiamo che l’apprendimento passa attraverso il divertimento.
E c’è intenzione amorevole anche nella nostra decisione di smettere di urlare in classe, sforzandoci di superare il rumore di fondo, nel tentativo di imporci meglio e di far comprendere chi è che comanda. Troppi risultano essere, infatti, i bambini appesantiti e segnati dagli urli involontari, ma frequenti e inevitabili di alcune insegnanti. Consideriamo oltre tutto quanto fa male alla nostra voce urlare, ma qui si aprirebbe un altro capitolo…
Ed entra in scena l’amore anche nel coltivare quel nostro desiderio di trovare altre vie, seppur dopo tanti anni, nel ricercare una voce un po’ diversa, chissà forse più tranquilla o forse più appassionata, nel ricercare una dolcezza forte anziché un fragile urlo, nel comunicare la gioia di essere lì insieme a condividere anziché la fretta o l’ansia di andare avanti velocemente con il programma o la paura di non farcela o la stanchezza della nostra vita o lo stress per le molteplici incombenze burocratiche.
È rischiarato dall’affetto anche il nostro lavorare sulla qualità del nostro sguardo in classe, in modo che sia attento, presente, affettuoso, autorevole, coinvolgente e sempre e comunque accogliente. Guardare negli occhi in un certo modo i nostri alunni significa considerarli, e l’etimologia di “considerare” ovvero “cum sidere” “portare alle stelle” la dice lunga sulle possibilità terapeutiche della qualità del nostro sguardo.
Dettata da un atteggiamento amorevole sarà anche la volontà di ricercare e di valorizzare i talenti dei nostri studenti, di allontanare da noi quella tendenza ad essere prevenuti, scettici o addirittura ostili nei confronti di chi non ci piace. Tra l’altro sarà molto arduo far imparare qualcosa a chi non ci piace, poiché avremo sperimentato che l’apprendimento passa sempre e solo attraverso l’accoglienza e l’accettazione dell’altro.
È un interessante e articolato percorso in cui dobbiamo essere ben disposti a comunicare, ossia a mettere in comune, a condividere e non solo ad informare o a dimostrare tutta la nostra cultura. Lungo il percorso ci accorgiamo che è consigliabile trasformare, migliorare, cambiare qualcosa in noi e nel nostro modo di essere educatori.
D’altra parte, come ci insegna Costantino Kavafis, nei versi della sua celebre poesia “Itaca”, la bellezza è nella varietà del percorso, nell’abilità di assaporare il viaggio e non nel punto di arrivo.
Non ci resta che dedicarci con amore al nostro unico, bellissimo, importante percorso.
di Lia Ferrero
Autonomia e responsabilità
Un itinerario didattico sull’educazione alla cittadinanza non può essere concepito al di fuori delle attività di socializzazione che dovrebbero caratterizzare ogni percorso scolastico, a partire dalla scuola dell’infanzia e dai primi anni della scuola primaria, in contesti sia di gioco, sia di ideazione, di creazione, di riflessione. Con questa differenza: solo a partire dalla scuola primaria deve potersi realizzare quel processo di metacognizione che consiste sostanzialmente nel prendere in esame i comportamenti collettivi e di gruppo, nel momento in cui si manifestano in classe, per rilevarne le positività, le criticità e le possibilità di miglioramento.
Gli spunti che seguono potrebbero adattarsi a una seconda - terza, pur tenendo presente che solo l’insegnante può avere la piena consapevolezza dell’effettiva maturità degli alunni e può autorevolmente stabilire in quale periodo tale itinerario possa avere inizio e assumere significato.
Il gioco e la regola
Quando i bambini incominciano a praticare giochi di gruppo, non tardano a rendersi conto che necessitano di regole che essi stessi devono seguire, pena l’anarchia. Anzi, nel timore di infrazioni, attribuiscono alla regola una tale importanza da renderla intangibile e quasi sacrale.
Quando il gioco non guidato da un adulto non va per il suo verso, si invoca la regola.
Un gruppo di bambini di sette-otto anni gioca a nascondino nel giardino della scuola. Chi “sta sotto” non conta ad alta voce in modo che tutti lo possano sentire e dal venticinque passa al trenta; inoltre cerca di sbirciare il nascondiglio degli altri. Questi a loro volta si nascondono in luoghi dichiarati all’origine proibiti (cantine, sotterranei, luoghi esterni al giardino). Ci vuol poco a capire che bisogna mettere un po’ d’ordine, sedersi un istante e ragionare. Perché si tengano a mente le regole occorre metterle per iscritto. Tutti hanno un “comandamento” da far rispettare: il difficile sta nell’esporlo in modo comprensibile. Primo: “Chi sta sotto deve coprirsi gli occhi; se non lo fa, lo si benda”. Secondo: “Deve contare a voce alta fino a trenta, in modo che tutti lo sentano e non deve “saltare” i numeri. Terzo: “È permesso nascondersi solo nel giardino, dietro il tronco degli alberi o dietro le siepi, non nei sotterranei della scuola”…
Ora il regolamento va completato e vanno studiate le sanzioni per chi non lo rispetta. A questo punto la fantasia dei bambini è molto fertile. Sarà dunque il caso di controllare che tali sanzioni siano proporzionate alle infrazioni e non eccedano in severità.
L’insegnante, attraverso una breve serie di quesiti rivolti alla classe, può incominciare a far riflettere.
:: Secondo voi, nelle punizioni sono ammesse le botte? Se no, perché?
:: È permesso umiliare un compagno che sbaglia?
:: Che cosa vuol dire umiliare?
:: Quando tutto va storto, di solito vi rivolgete all’insegnante. Perché?
:: In quali casi è indispensabile invocare il suo aiuto?
:: Quando e in che modo potreste farne a meno e cavarvela da soli?
:: Fate qualche esempio.
Quando i bambini non sono controllati
È un classico: quando l’insegnante si assenta anche solo per pochi minuti, lasciando di norma un bidello a controllare la classe, o quando, sulla soglia dell’aula, è impegnato a parlare con un genitore o un collega, spesso succede il finimondo: chi esce dal banco, chi alza la voce, chi fa il buffone… Il “capoclasse” ufficiale o di turno, o ancora quello che sul momento si autoproclama tale malgrado le proteste dei compagni, corre alla lavagna e segna con il gesso i buoni (a destra) e i cattivi (a sinistra). Buoni, pochi: quelli che non aprono bocca e assumono una posizione statuaria; cattivi: quasi tutti. Quando qualcuno dei “cattivi” si alza per protestare per non aver neppure respirato, accanto al suo nome il capoclasse traccia freneticamente croci su croci come a voler significare che il reo è recidivo e non accenna ad alcun pentimento.
In genere, al suo rientro, l’insegnante non degna di uno sguardo la lavagna imbrattata, manda a posto il capoclasse aguzzino e, senza comminare sanzioni, riprende l’attività interrotta.
Oggi tuttavia è tempo di riflessione: la situazione anomala offre lo spunto.
:: Che cosa fanno e che cosa non fanno quelli che vengono definiti “cattivi” per essere considerati tali?
:: E i “buoni”?
:: Sono appropriati i termini “buoni” e “cattivi”? Cosa c’entrano la bontà e la cattiveria?
:: Possiamo trovare altri termini che si adattino meglio alla situazione?
:: Ha senso separare con una linea netta i “buoni” dai “cattivi”?
:: Per essere considerati “buoni” basta starsene muti e immobili a contemplare la scena?
:: È giusto che un solo alunno giudichi i compagni secondo il suo metro di giudizio?
:: D’ora in poi è possibile studiare altre soluzioni più efficaci per tutti?
:: Chi sa dare qualche suggerimento?
- Cambiare ogni volta capoclasse
- Obbedire al bidello come all’insegnante
- Lasciare che ognuno faccia quello che vuole
- Trovare ogni volta un’attività che interessi la classe: chi sa raccontare barzellette, chi conosce indovinelli…
- Proseguire l’attività che era stata iniziata (lettura di un racconto, prova di calcolo orale…)
- Tutti possono avanzare ordinatamente delle proposte e ognuno è chiamato a votare l’una o l’altra per alzata di mano. Vince la proposta che ha ottenuto più voti.
Il difficile percorso dell’autonomia e dell’autogoverno
Come si nota, i suggerimenti dei bambini volti a un obiettivo anche modesto, se adeguatamente orientati e guidati, si fanno a poco a poco più circostanziati e meno perentori. Si va facendo strada il concetto di “autonomia” (il sapersi dare delle regole al di fuori di quelle imposte) e di “autogoverno” (il sapersi gestire sulla base di queste).
A tale scopo può aver luogo una riflessione a seguito di una breve assenza dell’insegnante, ma tale riflessione si rende tanto più necessaria quando, in presenza dell’insegnante, si passa ad esempio dall’organizzazione frontale alla formazione di gruppi di lavoro sulla base di procedure già sperimentate. È importante in ogni caso che, ad ogni singolo “esperimento”, l’atteggiamento del docente sia fondamentalmente orientativo e non ipercritico e sanzionatorio.
:: C’è un solo modo di star buoni o dipende dalle situazioni e dalle attività che vengono svolte in classe?
:: Quando un lavoro è avviato, come comportarsi con chi lo interrompe anche solo per provocazione?
:: Quali possono essere i comportamenti che procurano un vero disturbo?
:: Quelli che possono essere tollerati?
:: Quelli addirittura da incoraggiare?
:: Il silenzio in classe è sempre indispensabile?
:: Quando una classe è impegnata in un’attività collettiva o di gruppo può aver senso il silenzio?
:: Rispetto allo scorso anno la classe ha fatto dei miglioramenti, a vostro parere?
:: Sapreste indicare quali?
:: Ci sono dei comportamenti che devono essere migliorati?
:: Quali sono?
:: Perché una classe eviti il disordine e l’indisciplina bastano pochi volenterosi o è necessario il contributo di tutti?
Una serie di riflessioni del tipo di quelle riportate, adeguatamente scandite nel tempo e idonee a risolvere problemi legati a situazioni concrete, contribuirà a promuovere nei bambini determinate consapevolezze in ordine al significato concreto di autonomia e di autogoverno.
:: Dopo tutte le esperienze fatte, cercate di spiegare con parole vostre il significato di “autonomia” e di “autogoverno”.
:: Quando potete dire di aver raggiunto un certo livello di autonomia e di autogoverno? Fate qualche esempio.
:: L’autonomia e l’autogoverno si realizzano in una classe quando gli alunni riescono a organizzarsi e ad agire senza il diretto intervento dell’insegnante. Siete d’accordo con questa definizione?
:: Una classe può dirsi autonoma quando pochi alunni ottengono la fiducia degli altri e di questa si avvalgono per imporre agli altri i loro punti di vista?
:: L’autonomia e l’autogoverno possono realizzarsi soprattutto quando tutta la classe è impegnata in qualche attività interessante e mirata a uno scopo. Siete d’accordo con questa affermazione?
E, in ultimo, qualche spunto di riflessione di carattere generale.
Il percorso per conseguire l’autonomia e l’autogoverno anche in situazioni apparentemente elementari è non privo di difficoltà e di ricadute e si realizza solo quando concorrono:
:: un atteggiamento propositivo, orientativo e non sanzionatorio da parte dell’insegnante;
:: una classe sensibilizzata a lavorare anche senza il suo diretto intervento;
:: una serie di attività già sperimentate, proposte e gestite in autonomia, che siano in grado di coinvolgere e di responsabilizzare il maggior numero di bambini;
:: un certo numero di alunni dotati di autorevolezza che facciano da traino;
:: la capacità di evitare che gli alunni che non si sentono sufficientemente motivati e valorizzati disturbino e ostacolino le attività;
:: la capacità da parte dell’insegnante di comprendere quando la tensione positiva è in calo e la situazione richiede un suo intervento tempestivo, ancorché non invasivo;
:: Altro è l’autorevolezza; altro è l’autorità imposta anche in frangenti in cui sembra prendere avvio il delicato e fragile equilibrio di una classe alla ricerca di un suo “modus vivendi” improntato all’autonomia.
di Renzana Gallo
Ma prof….cos’è “l’Alternanza”?
La Legge 13 luglio 2015, n. 107, recante “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”, ha inserito nell’offerta formativa di tutti gli indirizzi di studio della scuola secondaria di secondo grado, e quindi nei curricoli scolastici, una strategia didattica definita Alternanza Scuola Lavoro, nella quale si alternano ore di lezione svolte a scuola a periodi trascorsi in contesti lavorativi attinenti al profilo educativo del corso di studi, con la finalità di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti.
In realtà “l’alternanza” non è una novità nel nostro sistema educativo, essendovi entrata già nel 2003 con la Legge n. 53, e il successivo decreto attuativo, 15 aprile 2005, n. 77. Tali norme intendevano già l’alternanza come una modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo per assicurare ai giovani, oltre alle conoscenze di base, anche l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro alternando periodi in aula ad altri svolti in contesti lavorativi.
Tale forma era però ben chiara e definita quasi esclusivamente negli istituti tecnici e professionali; in particolare, in questi ultimi, era presente proprio un’area professionalizzante (la cosiddetta Terza area) che prevedeva un progetto molto strutturato nel quale comparivano sia ore strettamente attinenti al profilo professionale da svolgersi in aula, sia un cospicuo monte ore in azienda o presso enti.
Il ruolo dell’alternanza scuola lavoro è stato poi successivamente confermato e consolidato con i Regolamenti del 2010 relativi ai nuovi ordinamenti degli istituti professionali, degli istituti tecnici e dei licei e, in particolare, nelle linee guida per il secondo biennio e il quinto anno, che sottolineano che “Con l'alternanza scuola lavoro si riconosce un valore formativo equivalente ai percorsi realizzati in azienda e a quelli curricolari svolti nel contesto scolastico. Attraverso la metodologia dell'alternanza si permettono l'acquisizione, lo sviluppo e l'applicazione di competenze specifiche previste dai profili educativi, culturali e professionali dei diversi corsi di studio”.
Un successivo consolidamento della metodologia dell’alternanza è stato apportato dal D.L. 12 settembre 2013, n. 104 che ha rafforzato la collaborazione tra scuola e mondo del lavoro potenziandola con lo sviluppo dell’orientamento, rivolto a studenti iscritti all’ultimo anno, per facilitare loro la scelta consapevole del successivo percorso di studio e favorire la conoscenza delle opportunità e degli sbocchi occupazionali, definendo, al contempo, la Carta dei diritti e dei doveri degli studenti della scuola secondaria di secondo grado.
La Legge 13 luglio 2015, n.107, ha infine, come già accennato, inserito organicamente questa strategia didattica nell’offerta formativa di tutti gli indirizzi di studio della scuola secondaria di secondo grado. Essa stabilisce che ciascuna scuola, dall’a.s. 2015/16 è chiamata a strutturare un progetto di alternanza scuola lavoro, articolato su tre anni, che vede impegnati gli studenti delle classi 3ª, 4ª e 5ª ed è caratterizzato da un monte ore complessivo e obbligatorio pari ad almeno 400 ore negli istituti tecnici e professionali e ad almeno 200 ore nei licei.
Ma prof… ci spiega quali sono le finalità?
Sicuramente con questa esperienza si cerca di attuare una modalità di apprendimento più flessibile e che colleghi in modo sistematico la formazione in aula con un'esperienza più strettamente operativa, arricchendo quindi la formazione degli studenti con l'acquisizione di competenze spendibili anche nel mondo del lavoro e favorendo, al contempo, un loro orientamento che valorizzi le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali.
Inoltre, l’attività di alternanza contribuisce alla realizzazione di un organico collegamento tra le istituzioni scolastiche, il mondo del lavoro e la società civile, correlando quindi l'offerta formativa della scuola allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio.
“Fare alternanza” significa quindi svolgere stage fuori dalla scuola?
La struttura dell’alternanza scuola lavoro è ben più complessa. Si articola infatti in periodi di formazione in aula e periodi di apprendimento mediante esperienze di lavoro.
La formazione può riguardare l’orientamento, con tematiche strettamente legate alla persona ed alle scelte future e quindi all’importanza delle soft skill e la loro influenza nei differenti settori lavorativi, e aspetti più pratici come redigere un curriculum vitae, individuare i canali per presentarlo e come ci si prepara ad un colloquio di lavoro. La formazione può essere relativa anche agli aspetti contrattuali, utile in tutte le tipologie di scuola e, in particolare, negli istituti tecnici e professionali i cui studenti sono principalmente indirizzati, alla fine del corso di studi, alla ricerca di un lavoro. Ciascuna scuola può poi aggiungere, in base alla propria offerta formativa, tipologie diverse di corsi di formazione. Tutte sono però tenute e fornire formazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, secondo quanto disposto dal relativo D.lgs. 81/2008, “Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”, poiché gli allievi, all’interno degli enti ospitanti, sono equiparati a lavoratori e, pertanto, soggetti a tutte le indicazioni presenti in tale normativa.
Possono rientrare sempre nelle attività di alternanza anche le visite didattiche di settore nonché la partecipazioni a particolari progetti che prevedono la collaborazione fra scuole ed enti, aziende, associazioni di categoria, organizzazioni di volontariato, ecc., da svolgersi in parte presso le sedi, in parte a scuola, con una partecipazione operativa da parte degli studenti.
Ciascuna scuola deve quindi progettare accuratamente, in una dimensione triennale, questi percorsi di alternanza, affinché contribuiscano a sviluppare le competenze richieste dal profilo educativo, culturale e professionale del corso di studi. Ed è proprio in questo percorso che trova la sua collocazione il concetto di competenza, intesa come «comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro, di studio o nello sviluppo professionale e personale, un insieme strutturato di conoscenze e di abilità acquisite nei contesti di apprendimento formale, non formale o informale».
Un altro momento significativo risulta essere l’attività di rielaborazione, da parte degli studenti, dell’intera esperienza di alternanza scuola lavoro che potrà, ad esempio, essere strutturata sotto forma di relazione, di una struttura auto-valutativa con la quale individuare le capacità e le competenze che si ritiene di aver acquisito, di un questionario di soddisfazione nel quale gli studenti sono chiamati a dare un giudizio sull’ente che li ha ospitati sia per quanto riguarda la tipologia della attività svolta sia per gli aspetti relazionali e organizzativi.
In particolare, il processo auto valutativo va inteso come momento di profonda riflessione, attraverso il quale lo studente è chiamato a dare un giudizio non solo sul livello delle conoscenze e delle competenze di settore acquisite ma anche su quelle legate alle abilità personali e relazionali quali, ad esempio, la capacità di lavorare in gruppo, comunicare con figure diverse e in ambienti nuovi, organizzare il proprio lavoro in modo autonomo e responsabile, rispettare gli orari di lavoro e gestire il tempo, la capacità di risolvere problemi e assumere compiti e iniziative autonome.
Ma prof… allora diventiamo lavoratori?
Assolutamente no! Ai ragazzi rimane lo status di studente poiché l’alternanza va intesa come una metodologia didattica che non costituisce un rapporto di lavoro. Certo è che quando svolgono attività presso gli enti ospitanti, come già accennato sopra, gli studenti sono equiparati a lavoratori e, pertanto, le scuole hanno il compito di organizzare corsi di formazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
È inoltre prevista l’emanazione di un regolamento all’interno del quale sarà definita la “Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola lavoro”, con la possibilità, per lo studente, di esprimere una valutazione sull’efficacia e sulla coerenza dei percorsi con il proprio indirizzo di studio. In attesa è bene che le scuole monitorino comunque, per esempio attraverso sondaggi di soddisfazione, tutta l’attività e, in particolare, quella svolta all’esterno; infatti, proprio dal confronto fra il giudizio dello studente con quello del tutor interno, sulla base del potenziale formativo e delle eventuali difficoltà incontrate nella collaborazione, la scuola potrà decidere se continuare tale collaborazione in futuro.
Chi è il tutor interno?
È un docente della scuola, solitamente impegnato sulla classe, che elabora insieme al tutor esterno il percorso formativo personalizzato, sottoscritto dalle parti coinvolte (scuola, struttura ospitante, studente/genitori o affidatari), e segue quindi gli studenti in tutto il percorso svolto in stage/tirocinio. È quindi impegnato a gestire le relazioni con il tutor esterno, monitorando le attività e affrontando le eventuali criticità che dovessero emergere. Infine, come già accennato, valuta gli obiettivi raggiunti e le competenze che progressivamente gli studenti hanno sviluppato.
E il tutor esterno?
Il tutor esterno rappresenta la figura di riferimento dello studente all’interno della struttura ospitante ed assicura il raccordo tra questa e la scuola. Esso svolge principalmente le seguenti funzioni: collabora con il tutor interno nella progettazione, nell’organizzazione e nella valutazione dell’esperienza di alternanza, favorisce l’inserimento dello studente nel contesto operativo, lo affianca e lo assiste nel percorso, gli garantisce l’informazione e la formazione sui rischi specifici aziendali, pianifica ed organizza le attività in base al progetto formativo, lo coinvolge nel processo di valutazione dell’esperienza e, infine, fornisce all’istituzione scolastica gli elementi concordati per valutare le attività dello studente e l’efficacia del processo formativo.
Ma prof… si va solo in aziende? E noi liceali?
Per lo svolgimento di percorsi in alternanza esiste la possibilità di stipulare convenzioni non solo con aziende, imprese, ma anche con ordini professionali, enti che svolgono attività afferenti al patrimonio artistico, culturale e ambientale (musei e altri luoghi della cultura), con enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI nonché con organizzazioni e associazioni di volontariato.
Ma dobbiamo andarci anche d’estate?
Le attività da svolgersi all’esterno della scuola possono essere realizzate sia durante l’anno sia in periodi di sospensione delle lezioni, eventualmente anche all’estero.
E se siamo stati assenti durante queste attività?
Ai fini della validità del percorso di alternanza è necessario che lo studente abbia frequentato per almeno tre quarti del monte ore previsto dal progetto.
In particolare, nell’ipotesi in cui i periodi di alternanza si siano svolti durante l’attività didattica, la presenza dell’allievo registrata nei suddetti percorsi va computata sia ai fini del raggiungimento del limite minimo di frequenza, pari ad almeno tre quarti dell’orario annuale personalizzato, sia ai fini del raggiungimento del monte ore previsto dal progetto di alternanza.
Qualora, invece, i periodi di alternanza siano svolti, del tutto o in parte, durante la sospensione delle attività didattiche, ad esempio nei mesi estivi, fermo restando l’obbligo di rispetto del limite minimo di frequenza delle lezioni, è richiesta la frequenza di almeno tre quarti del monte ore previsto dal progetto.
Ma prof… alla fine come saremo valutati?
Purtroppo, ad oggi, questa è la parte ancora meno strutturata di tutto il percorso.
Se infatti la normativa vigente fa espressamente richiamo all’attenzione che si deve porre attraverso una osservazione strutturata che guardi non solo le competenze di settore ma anche le competenze trasversali legate agli aspetti caratteriali e motivazionali della persona, e che analizzano quindi anche gli atteggiamenti ed i comportamenti dello studente in un contesto lavorativo, nella realtà sulla valutazione le scuole hanno ricevuto per ora soltanto indicazioni di massima e non strettamente vincolanti, sebbene tali indicazioni siano comunque in coerenza con quelle contenute nel decreto legislativo relativo al Sistema Nazionale di certificazione delle competenze, e successive integrazioni.
In particolare la scuola dovrà elaborare una descrizione delle competenze attese al termine del percorso, prevedere un accertamento delle competenze in ingresso, definire in che modo e con quali tempi monitorare i progressi degli studenti, verificare i risultati conseguiti nelle fasi intermedie e accertarsi, infine, delle competenze acquisite alla fine del ciclo.
Nella realtà operativa delle scuole e, in particolare negli istituti professionali e tecnici che hanno elaborato negli anni propri sistemi di valutazione, per ora gli esiti delle esperienze di alternanza risultano valutati secondo modalità e strumenti diversi e adattabili al percorso svolto come, ad esempio, prove esperte, schede di osservazione, i diari di bordo.
A conclusione dell’anno scolastico, gli esiti delle attività di alternanza concorrono alla valutazione finale sia per la loro ricaduta sugli apprendimenti disciplinari e sul voto di condotta sia per l’attribuzione dei crediti (ai sensi del D.M. 20 novembre 2000, n. 429), in coerenza con i risultati di apprendimento in termini di competenze acquisite coerenti con l’indirizzo di studi frequentato (ai sensi dei DD.PP.RR. nn. 87, 88 e 89 del 2010 e delle successive Linee guida e Indicazioni nazionali allo scopo emanate).
La valutazione del percorso in alternanza diventa quindi parte integrante della valutazione finale dello studente ed incide sul livello dei risultati di apprendimento conseguiti nell’arco del secondo biennio e dell’ultimo anno del corso di studi.
Le istituzioni scolastiche devono includere infine le esperienze condotte in regime di alternanza nella valutazione delle competenze nell’ambito dell’Esame di Stato.
In particolare per quest’ultimo, fatte salve le eventuali future modifiche, è previsto che le commissioni predispongano la terza prova scritta tenendo conto anche delle competenze, conoscenze ed abilità acquisite dagli allievi e certificate congiuntamente dalla scuola e dalla struttura ospitante, nell’ambito delle esperienze condotte in alternanza.
I risultati finali della valutazione vengono quindi sintetizzati in una certificazione finale.
E a cosa ci servirà questa certificazione?
La certificazione delle competenze attesta la valenza formativa del percorso che avete svolto, offrendo al contempo indicazioni sulle vocazioni, gli interessi e gli stili di apprendimento con una forte funzione di orientamento. Essa può facilitare la mobilità, sia ai fini della prosecuzione del percorso scolastico o formativo, sia per gli eventuali passaggi tra i sistemi, ivi compresa l'eventuale transizione nei percorsi di apprendistato e favorire l’occupabilità, mettendo in luce le competenze spendibili anche nel mercato del lavoro. Infine la certificazione promuove l'auto-valutazione e l'auto-orientamento, in quanto consente allo studente di conoscere, di condividere e di partecipare attivamente al conseguimento dei risultati.
Da tempo il Parlamento Europeo e la Commissione Europea stanno lavorando sul tema della trasparenza dei titoli di studio e delle qualifiche e, in attuazione degli impegni assunti dall’Italia in sede europea, il D.lgs. 6 gennaio 2013, n. 13 indica le norme generali e i livelli essenziali delle prestazioni per l'individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali e informali e gli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze, anche in funzione del riconoscimento in termini di crediti formativi in chiave europea.
I modelli di certificazione, elaborati e compilati d’intesa tra scuola e soggetto ospitante, devono fare riferimento proprio agli elementi minimi di attestazione previsti dal suddetto decreto e devono riportare i riferimenti alla tipologia e ai contenuti dell’accordo che ha permesso il percorso in alternanza, le competenze acquisite, i dati relativi ai contesti di lavoro in cui lo stage/tirocinio si è svolto, le modalità di apprendimento e valutazione delle competenze ed, eventualmente, la lingua utilizzata nel contesto lavorativo (per quelli svolti all’estero).
Sarà infine compito di ciascun studente compilare il proprio curriculum vitae, da inserire nel Portale Unico dei dati della scuola, previsto dalla Legge 107/2015.
di Valeria Amerano
Guardava passare i treni per non ricordare che più nessuno l’aspettava.
Se gli si fosse appiccicato un cane, non lo avrebbe scacciato. Gli sarebbe sembrato un dono del destino, una di quelle coincidenze che fanno incontrare le persone in viaggio nella stessa carrozza, ma con meno formalità. Col cane sarebbe stata subito una questione di solitudine e di odori. Abbastanza per capirsi senza galateo e farsi compagnia. Pedro o Pancio lo avrebbe chiamato, se gli fosse capitato tra i piedi.
La gente scendeva e saliva, si affrettava intorno con i bagagli e intanto continuava a parlare al telefono con i fili piantati nelle orecchie. Le ruote delle valigie, gli annunci dell’altoparlante e il vocio dei passeggeri nella serra della stazione assicuravano un sottofondo stagnante e attutito che cullava il sonno e riempiva la veglia immota con la frenesia delle mete degli altri. Da anni non aveva più appuntamenti, posti dove andare e dove ritornare. Non era stato sempre così. Una volta girava anche lui negli ingranaggi della massa indistinta che colora le statistiche; aveva un posto, una casella di commesso nel grande negozio di elettrodomestici, aveva un matrimonio cigolante come tutti, andava in ferie, teneva una chitarra appesa in cantina perché la moglie non voleva vederla in casa, spendeva soldi per i regali ai figli. Finché la vita non lo aveva risputato e lui se n’era trovato fuori, espulso come un monello da scuola. Perso il lavoro, la moglie se n’era andata lasciandogli qualcosa più di un sospetto che non aspettasse pretesto migliore per mollarlo. I figli più che rami di uno stesso albero gli sembravano cavità del fusto. Uno aveva maniche di tatuaggi e andava col suo gruppo ad imbrattare i treni, l’altra aveva interrotto gli studi per seguire un giostraio. A cinquantadue anni era tornato a vivere con la madre, la sua pensione, qualche lavoro saltuario da una ferramenta che lo mandava a sostituire nelle case tapparelle e cintini. Poi un giorno una stupida depressa s’era trovata a mancare dei soldi da un cassetto e, non sapendo che fine avessero fatto o dove li avesse spesi, era andata a insinuare che poteva averglieli soffiati l’operaio che la ferramenta le aveva mandato a casa. Lui non aveva toccato nulla; il proprietario sembrava poco convinto della lucidità della cliente, tuttavia non lo aveva più chiamato perché, in fondo, non lo conosceva abbastanza per escludere sorprese e voleva togliersi dagl’impicci. Si accese una sigaretta trovata. Era dagli anni della chitarra che non fumava più; gli anni migliori e più leggeri della vita: quando in quattro si ritrovavano in una cantina di periferia a sognare di diventare i nuovi Renegades di Lungo Stura. Maxi picchiava sui piatti della batteria con i capelli ondulati che gli arrivavano ai gomiti, aveva la testa come il ceppo di un rovere; Tony faceva gemere e latrare la chitarra elettrica. Lui spremeva il mug e Leo cantava canzoni scritte alla scuola serale di disegnatore di carrozzerie. Era tutto divertente e risibile, a portata di mano; e se non si diventava nessuno c’era sempre l’indomani per inventarsi una nuova vita, un nuovo progetto da fare e disfare. Il bello del lavoro che non ti garantisce nulla è la libertà che ti lascia. Un po’ di scuola, mezza giornata al negozio e la sera a suonare. Poi la vita si assesta nei contratti: di lavoro, di matrimonio e sembra pigliare una strada. A vedersi licenziato all’età in cui un tempo la gente cominciava a fare i calcoli per andare in pensione, gli era sembrato di sprofondare. Le lavatrici, i televisori, i cubi Hi-Fi che avevano venduto negli anni Ottanta! Il magazzino aveva prezzi concorrenziali e c’era sempre la coda. Poi erano arrivati i grandi centri commerciali con le offerte speciali. La merce invecchiava rapidamente e si divorava da sola: i modelli duravano una stagione come i vestiti delle donne; la telefonia, i computer, i CD… I televisori allineati sugli scaffali erano pesanti scatoloni rispetto ai nuovi leggeri schermi digitali; i lettori di videocassette in un momento diventarono ingombri superati e inutili. Occorreva personale specializzato e i prezzi non potevano reggere il passo con quelli degli ipermercati. Il negozio cominciò a cedere tre vetrine al ristorante cinese, e via via a restringere spazi e personale in una resa inevitabile. Il figlio dei proprietari prese una tabaccheria, e i due anziani genitori si ritirarono a malincuore dal commercio che per due generazioni era stato la loro passione, il loro salotto, la fonte di vita. Così s’erano chiusi tanti negozi a Torino; storici empori avevano abbassato le saracinesche lasciando in vista desolazione e abbandono; qualcuno era finito male. Lui anche peggio. Andava al dormitorio e mangiava alla mensa dei poveri. Si lavava ancora. Più che per se stesso lo faceva nel ricordo di sua madre, che alla fine, doveva riconoscere, era stata l’unica persona a volergli davvero bene.
di Laura Siviero
È noto che il livello degli studenti italiani sulle lingue straniere sia basso. L’ultimo rapporto 2016 EF Epi (English Proficency Index), rivela che, su 72 Paesi rilevati, l’Italia si trova al 28esimo posto nel mondo sulla conoscenza dell’inglese. In miglioramento rispetto al 2013, quando era al 32esimo posto. Ma siamo ancora indietro confronto alla media europea, soprattutto nell’uso dell’inglese in ambito lavorativo. Sette paesi europei sono nella fascia «alto livello di competenza», tredici a livello «buono», tredici nella fascia «media», in cui compare, appunto, l’Italia.
L’apprendimento della lingua inglese, dunque, deve migliorare, se si vogliono rendere gli studenti italiani maggiormente competitivi a livello internazionale. E il CLIL rappresenta uno strumento che può favorire l’apprendimento della lingua.
Il Clil team
Dal 2015-2016 il CLIL (Content and Language Integrated Learning) è entrato a regime in tutti i gli ultimi anni delle scuole secondarie di secondo grado.
“La prosecuzione delle norme transitorie - spiega Gisella Langé, Ispettrice Tecnica di Lingue Straniere del MIUR- gli stanziamenti della direzione generale degli ordinamenti, i continui riferimenti all’importanza delle lingue straniere e l’inserimento del CLIl nel nuovo piano di formazione, hanno permesso il proseguimento di un processo iniziato da alcuni anni”. La recente nota del Ministero1 viene incontro alle esigenze delle scuole che chiedevano fondi e dei docenti di lingua che si sentivano esclusi dalla formazione. Vengono stanziati infatti € 1.500.000 per la progettazione e la realizzazione di azioni CLIL destinate alle reti di scuole statali del primo e secondo ciclo. Un passaggio importante che inserisce tra i destinatari del finanziamento le reti territoriali che comprendano tra i cinque e i dieci istituti scolastici. In questo caso la rete, oltre che di ambito diventa anche di scopo2.
L’altro punto fondamentale contenuto nella nota (1) è relativo ai docenti di lingua e decreta che la formazione venga estesa non solo ai docenti di materia disciplinare, ma anche a quelli di lingua straniera per un totale di 15.000 insegnanti.
Si tratta di una svolta importante per l’attivazione dei CLILteam come definito dal punto f) della nota ministeriale che sostiene “l’attivazione di modalità di lavoro collaborative tra docenti di lingua straniera e docenti di disciplina non linguistica (team CLIL) con la formazione di gruppi di lavoro finalizzati alla condivisione di strategie e modalità di insegnamento della lingua straniera, definendo un quadro di sviluppo professionale continuo per i docenti, con percorsi di Formazione Metodologica per il CLIL".
In tal modo, viene reso attuabile l’auspicio contenuto nelle precedenti note transitorie emanate attraverso la circolare del 20133, in cui si leggeva che si rende necessaria “la costituzione di veri e propri team composti dal docente della materia disciplinare, docente di lingua straniera, conversatore di lingua straniera, eventuale assistente linguistico”.
Le finalità del CLIL
Sono due le principali finalità nello studio della lingua straniera secondo la modalità CLIL. La prima far acquisire contenuti disciplinari in modo da migliorare le competenze linguistiche nella lingua veicolare, che viene utilizzata come strumento per apprendere e sviluppare abilità cognitive. La seconda aiutare gli studenti a comprendere che la lingua è uno strumento di comunicazione, acquisizione e trasmissione del sapere e non si tratta di un’astratta entità di regole grammaticali e elenchi di parole.
I vantaggi del CLIL
Nonostante le perplessità di alcuni è necessario sottolineare i molti vantaggi rappresentati dalla metodologia CLIL. Anzitutto la maggiore esposizione all’uso di una lingua straniera sia per quantità di ore sia per qualità, grazie all’uso di metodologie interattive, di cooperative learning, la presentazione di contenuti disciplinari che diventa maggiormente concreta e visiva e la costruzione di contenuti e significati che permettono un migliore radicamento dei concetti, portano lo studente a raggiungere un livello linguistico superiore e più circostanziato. Si attiva un’azione sinergica nel processo di apprendimento integrato della L2 e di contenuti disciplinari e interdisciplinari. L’ambiente di apprendimento CLIL favorisce la motivazione dello studente e aumenta la sua consapevolezza dell’utilità di padroneggiare una lingua straniera. Inoltre il passaggio da una competenza linguistica limitativa di tipo BICS (Basic Interpersonal Communication Skills) alla competenza linguistica qualitativa di tipo CALP (Cognitive Academic Language Proficiency), ovvero una competenza più evoluta legata alla lingua dello studio delle varie discipline, fornirà un supporto linguistico qualitativo spendibile nei futuri percorsi accademico/professionali dello studente. La fiducia dello studente nelle proprie possibilità sviluppa il piacere di utilizzare la lingua come strumento operativo. Infine l’insegnamento veicolare stimola la maggiore competenza linguistica (incremento del lessico, fluidità espositiva, efficacia comunicativa).
L’utilizzo della metodologia CLIL rappresenta un plusvalore non solo per l’apprendimento degli studenti, ma anche per la competenza linguistica dei docenti, i quali dovendo sostenere le certificazioni linguistiche si appropriano di un patrimonio linguistico che potrà essere riutilizzato anche in ambito non strettamente educativo.
Il profilo del docente
Il docente CLIL deve possedere competenze linguistico-comunicative nella lingua in cui vuole insegnare la propria materia pari a B2+, secondo l’ultima circolare a riguardo4, e aver acquisito competenze metodologico-didattiche attraverso un corso di perfezionamento universitario pari a 60 CFU (Crediti Formativi Universitari), se si tratta di un docente in formazione iniziale e 20 CFU se si tratta di un docente in servizio.
Tra il 2016 e il 2019 è previsto a livello nazionale il coinvolgimento di 110.000 docenti tra corsi linguistici e metodologici.
Inoltre è stato introdotto un principio di premialità seppur modesto, di un punto sulla graduatoria interna d’istituto, per coloro che possiedono un livello C1, hanno seguito il corso metodologico e hanno sostenuto l’esame, di 0,5 punti per coloro che hanno frequentato il corso metodologico ma non hanno il livello linguistico C1. Un piccolo incentivo che ci si augura possa crescere in futuro, dato l’impegno profuso dai docenti.
Il percorso formativo declinato in Piemonte
L’introduzione del CLIL nei Licei e negli istituti tecnici parte con i DPR 88-89 2010 e successive norme transitorie che hanno normato l’inserimento del CLIL nelle scuole italiane. Il Decreto Ministeriale del 20115 stabilisce i criteri e le modalità per lo svolgimento dei corsi di perfezionamento per l’insegnamento di una disciplina non linguistica in lingua straniera (DNL)6. Il Decreto Ministeriale del 20127 stabilisce i requisiti per il riconoscimento della validità delle certificazioni delle competenze linguistico-comunicative in lingua straniera del personale scolastico. I successivi Decreti Direttoriali della DGAI definiscono l’elenco degli enti certificatori.
Il percorso si è sviluppato in tre fasi. La prima in cui il Ministero8 ha affidato all’INDIRE la formazione. Questi ha emesso un bando e stretto accordi con le Università, tra cui l’Ateneo di Torino, attraverso il CLA (Centro Linguistico di Ateneo) per la formazione linguistica e metodologica di tutti coloro che avessero già una certificazione linguistica B2. Si era previsto un corso di due annualità per passare dal B2 al C1 e per il momento ne è stata svolta una sola.
Nel 20139 è partita la seconda fase, in cui il Ministero ha promosso 18 scuole capofila in Italia, in rappresentanza di ciascuna Regione, finalizzate al supporto delle attività relative alla diffusione della metodologia CLIL. In Piemonte sono il Russel Moro per i Tecnici, l’Umberto I per i Licei affidando il monitoraggio all’USR10. Sono partiti il secondo e terzo percorso CLIL linguistico affidato ad enti privati (l’Università si sfila dalla formazione linguistica). Il secondo percorso è affidato a Lend e Alliance e il terzo a docenti interni alle scuole madrelingua. La terza fase, con il decreto del 201311 in cui l’art. 3 integra e modifica i precedenti consentendo ai docenti di andare in classe con il B2 purché impegnati nei percorsi formativi, inoltre l’avvio graduale per moduli parziali può essere sperimentato anche da docenti in possesso di B1 inseriti nei corsi per conseguire il B2. Ha inoltre trasferito i fondi per il corso metodologico alle scuole (125.000 euro al Piemonte) per costruire 11 corsi. Per ottenere questa certificazione in Piemonte sono già stati organizzati i corsi di formazione metodologica che hanno coinvolto, fino all’anno 2014-2015, 90 insegnanti. Un numero importante ma ancora troppo esiguo per le esigenze del territorio.
Ora con la nota n. 11411 del 13/10/2016 la formazione si estende a tutti i docenti.
Le sperimentazioni CLIL nel Primo ciclo
Anche nel primo ciclo sono state possibili delle sperimentazioni aderendo al Progetto eccellenza CLIL bandito nel 2014 dal MIUR12 che ha previsto la realizzazione e sperimentazione di percorsi CLIL di almeno 20 ore annuali da attivarsi in minimo due classi di ogni istituzione scolastica coinvolta anche attraverso lo sviluppo di attività nell’ambito del curricolo verticale CLIL, coinvolgendo docenti e alunni di scuole primarie e secondarie di primo grado della rete con produzione e sperimentazione di materiali didattici digitali con gli studenti. Per questo progetto, e in linea con lo spirito CLIL, era necessario prevedere forme di collaborazione tra docenti di lingua straniera, docenti di DNL ed eventuali docenti madrelingua. Per la partecipazione alle attività progettuali, i docenti della scuola primaria dovevano possedere almeno il livello di competenza linguistico - comunicativa B2 del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue (QCER); i docenti DNL della scuola secondaria di primo grado almeno il livello di competenza linguistico - comunicativa B1del QCER.
Lo stesso protocollo esortava ad aderire al Progetto E-CLIL finalizzato alla progettazione, realizzazione e sperimentazione di moduli CLIL di almeno 10 ore da attivarsi in almeno due classi di ogni istituzione scolastica coinvolta con l’uso delle ICT, anche attraverso lo sviluppo di attività nell’ambito del curricolo verticale CLIL, coinvolgendo docenti e alunni di scuole primarie e secondarie di primo grado della rete con produzione e sperimentazione di materiali didattici digitali con gli studenti. Ad esempio powerpoint ipertestuali con immagini ed animazioni, giochi educativi interattivi, esercizi, test, questionari multimediali, video, e - book, living book, ecc. Anche per questo progetto era necessario prevedere forme di collaborazione tra docenti di lingua straniera, docenti di DNL ed eventuali docenti madrelingua.
Ora con il Piano di Formazione Nazionale il CLIL si apre a tutti gli ordini di scuola.
Conclusioni
Le indagini pubblicate non fanno che confermare l’esigenza degli studenti italiani ad apprendere meglio le lingue straniere per il loro futuro lavorativo. Non basta studiare una lingua a tavolino attraverso i corsi presentati dai libri di testo senza fare un’esperienza linguistica concreta. In questo senso la metodologia CLIL permette di andare incontro a tale esigenza, stimolando i docenti a lavorare in sinergia, per offrire ai ragazzi le competenze linguistiche richieste non solo dal mondo del lavoro ma anche dal mondo universitario che sempre più, anche da noi, offre corsi disciplinari in inglese (nel 2016-2017 sono 682 i corsi distribuiti in inglese in 60 atenei italiani). L’abitudine dunque allo studio di discipline non linguistiche in inglese, non può che favorirli nel loro percorso formativo e lavorativo, possibilmente a partire dal primo ciclo.
di Mario Tranfaglia
All'inizio di settembre sono andato, con alcuni colleghi della mia scuola che partecipavano con me al progetto Erasmus, in Finlandia a Oulu e ho potuto osservare direttamente quella che è considerata, da tutti gli esperti delle principali organizzazioni che si occupano di valutazione dei sistemi d'istruzione (vedi Pisa e Ocse), la migliore scuola del mondo.
La scuola finlandese risulta, secondo le ultime comparazione internazionali, la migliore del mondo sia per quanto riguarda i risultati nell'area matematico-scientifica, sia nella “reading literacy”, ossia nella capacità di leggere e comprendere un testo scritto nella propria lingua, abilità fondamentale per acquisire competenze durevoli in tutti i campi dell'apprendimento.
Ho potuto osservare direttamente come le scuole finlandesi siano costruite in edifici pensati, o riadattati nel caso di quelli meno nuovi, in funzione delle esigenze dei bambini e di quanto l'attenzione agli edifici, agli spazi interni ed esterni della scuola non sia solo una questione che riguarda la sicurezza ma abbia prima di tutto una funzione educativa.
Gli edifici scolastici sono infatti costruiti pensando alle esigenze pedagogiche ed educative dell'istituzione: gli spazi interni si possono facilmente modificare ed adattare in funzione dei bisogni educativi dei bambini e delle intenzioni pedagogiche degli insegnanti.
Ogni aula, nella scuola che ho visitato, ha una Lim o una lavagna che può essere digitalizzata con una lampada luminosa e con un proiettore che ne consente differenti usi.
La scuola possiede un'aula informatica, ben attrezzata e un buon numero di tablet che sono utilizzati a turno da tutte le classi. Tutto il personale docente, indipendentemente dall'età e dal tipo di formazione iniziale che ha seguito, è in grado di utilizzare al meglio gli strumenti informatici.
Gli spazi esterni alla classe, corridoi, aule laboratoriali, cortili sono utilizzati da tutti i docenti e gli alunni della scuola. I bambini si muovono in modo autonomo all'interno di questi spazi sotto la supervisione discreta degli adulti che sono presenti.
Durante l'intervallo tutti i bambini della scuola vanno nel cortile e giocano liberamente controllati da due insegnanti che a turno li sorvegliano.
Gli insegnanti che quel giorno non si devono occupare della sorveglianza degli alunni, si recano nella sala insegnanti per un momento di pausa e di scambio con gli altri colleghi.
Il clima che si respira nella sala insegnanti è davvero piacevole, tutti si conoscono bene e sono abituati ad ascoltarsi. Il preside è spesso presente in questi momenti e si vede che fa parte del gruppo degli insegnanti. Abbiamo potuto constatare come questo clima rilassato, di scambio e ascolto si trasferisca anche agli altri momenti più formali della settimana scolastica, quando gli insegnanti devono programmare e decidere come condividere gli spazi e utilizzare le competenze presenti nella scuola.
Le aule laboratorio presenti sono tutte molto attrezzate e sono utilizzate da piccoli gruppi della classe, da gruppi misti o in alcuni casi da classi intere.
L'aula di manualità, chiamata di handicraft, viene utilizzata per la lavorazione del legno e sono presenti al suo interno strumenti come martelli, seghe elettriche, trapani, presse e torni; gli strumenti vengono utilizzati da tutti gli alunni a partire dalla seconda classe con un buon livello di autonomia: è davvero impressionante vedere bambini di 7-8 anni maneggiare questi strumenti precisi e affilati e vedere l'importanza che viene data a queste attività da tutti i docenti della scuola.
Esiste un'altra aula di manualità nella scuola, anche questa attrezzatissima, nella quale vengono svolte attività di lavorazione con la carta e con vari tipi di tessuti.
La possibilità di utilizzare entrambi i laboratori contemporaneamente con piccoli gruppi permette di realizzare progetti multidisciplinari e di unire i risultati in un progetto unico.
La scuola, che ha un indirizzo musicale, ha a disposizione una fornitissima aula di musica dotata di numerosi e vari strumenti musicali e un'enorme sala dove i bambini si riuniscono in occasione dei concerti che sono organizzati con cadenza settimanale o per partecipare alle lezioni di coro e d'orchestra.
All'esterno dell'edificio scolastico sono presenti diversi impianti sportivi, utilizzati dai bambini della scuola: innanzitutto un campo di baseball, dove i maestri tengono, a partire dalla classe quinta, le prime lezioni di baseball finlandese durante l'ora di educazione fisica; vicino al campo da baseball c'è una piscina e a fianco un'altra struttura con un campo da football e uno da hockey su ghiaccio (che è lo sport nazionale in Finlandia).
La mensa, con cucina fresca, è gratuita per gli alunni della scuola ed è self-service, i bambini scelgono i cibi e il luogo dove mangiare con i compagni all'interno dello spazio mensa; gli insegnanti mangiano con i colleghi della scuola e spesso raggiungono in seguito gli alunni in classe che al termine del pasto possono tornare autonomamente nelle loro aule.
I corridoi vicini alle aule sono spesso utilizzati dai bambini per approfondire un argomento di studio all'esterno della classe sotto la guida di qualche insegnante o per attività di recupero nel piccolo gruppo.
Nei corridoi ci sono degli enormi armadi a vetrina dove è presente una grande quantità di materiale didattico strutturato, in prevalenza di matematica che può essere utilizzato da tutti gli insegnanti della scuola.
Gli spazi all'interno della scuola sono molto puliti e curati e i bambini e gli insegnanti si muovono al suo interno senza utilizzare le scarpe: gli alunni usano le calze e gli insegnanti delle semplici ciabatte.
Il clima che si respira nella scuola è di calma e rilassatezza e la fiducia tra le persone che condividono gli spazi è palpabile nell'aria.
La scuola elementare dura sei anni ed è frequentata da bambini dai sette ai tredici anni. Negli anni della scuola elementare gli alunni non sono valutati con i voti ma con una scheda quadrimestrale che certifica il livello di competenza raggiunta.
I bambini frequentano la scuola primaria dal lunedì al venerdì per 22 ore di lezione a settimana: non vengono assegnati compiti a casa né durante la settimana né nel week-end ma nel pomeriggio è possibile rimanere a scuola per partecipare ad attività sportive, musicali, ludiche organizzate da associazioni in convenzione con l'istituzione scolastica (solo una piccola parte dei bambini che frequentano la scuola usufruisce di questo servizio).
I bambini che mostrano difficoltà di apprendimento sono precocemente individuati, grazie anche al supporto che l'insegnante di sostegno della scuola garantisce a tutti i docenti, e avviati a percorsi di recupero individualizzati o nel piccolo gruppo.
I contatti tra la scuola e la famiglia sono tenuti attraverso una sorta di registro elettronico che i genitori hanno l'obbligo di controllare quotidianamente e nel quale vengono descritte le attività svolte dai bambini e comunicate eventuali criticità.
I bambini con difficoltà di apprendimento sono seguiti con molta attenzione fin dai primi anni e grazie a questa attenzione precoce la scuola finlandese risulta essere, per chi la frequenta, tra le più inclusive del mondo.
I bambini con disabilità certificata non possono però frequentare le scuole pubbliche normali ma vanno in scuole speciali.
Il tasso di bambini stranieri è ancora molto basso ma è in rapida crescita negli ultimi anni.
La scuola finlandese è, secondo tutti gli studi e le principali ricerche internazionali, una delle migliori al mondo ed il suo sistema d'istruzione pubblico è uno dei pochi che può essere considerato al tempo stesso equo ed efficiente.
Qualcuno potrebbe pensare che il “segreto” della scuola finlandese risieda semplicemente nella capacità che lo stato ha avuto, grazie alla disponibilità economica e alla lunga tradizione di welfare, condivisa peraltro con le altre nazioni del Nord Europa, di investire risorse nell'istruzione pubblica.
Queste condizioni socio-economiche sono state sicuramente importanti ma non sono sufficienti a spiegare “il miracolo della scuola finlandese” che negli ultimi trenta-quarant'anni è stata in grado di rinnovare l'intero sistema dell'istruzione pubblica (che era negli anni settanta uno dei peggiori al mondo) e di creare un sistema d'istruzione efficiente e migliore di quello della vicina e ben più ricca Svezia.
Per cercare di spiegare in modo più approfondito il miracolo della scuola finlandese è necessario analizzare le politiche scolastiche finlandesi degli ultimi decenni e confrontarle con quelle degli altri paesi dell'Ocse.
Se si analizzano le politiche scolastiche finlandesi degli ultimi decenni e si cerca di capire su quali fondamenti politici, sociali e pedagogici esse si siano basate ci si rende facilmente conto di quanto esse siano andate in controtendenza rispetto alla linea generale sostenuta dalle riforme globali sull'educazione portate avanti in tutti i paesi dell'Ocse, chiamate dagli esperti Germ (Global-Educational-Reform-Movement).
La Finlandia è stata capace di resistere ai cambiamenti proposti dal Germ, che hanno aumentato il livello di standardizzazione nei metodi di insegnamento e apprendimento, creato un maggior livello di competizione tra scuole e tra insegnanti dando sempre più importanza ai sistemi di valutazione esterna e standardizzata, introducendo forme di retribuzione basate sul merito tra i docenti.
La scuola pubblica finlandese è stata capace di creare un modello “alternativo” a questo tipo di riforme mettendo al centro del proprio progetto di rinnovamento del sistema pubblico d'istruzione, l'idea che l'unico modo per costruire una scuola davvero efficiente è garantire che questa sia anche equa ed inclusiva.
Secondo questa prospettiva che ha ispirato tutte le riforme del sistema d'istruzione pubblico finlandese dagli anni settanta ad oggi, solo una scuola inclusiva, capace di seguire e di recuperare i bambini in difficoltà, può essere capace di produrre una “buona scuola” e quindi di permettere ai bambini più dotati di emergere. La scuola finlandese si è riformata partendo dall'idea che a tutti i bambini deve essere data la stessa possibilità per avere successo a scuola.
Il primo obiettivo della scuola pubblica deve essere l'equità e l'uguaglianza di opportunità; per ottenere questo obiettivo è necessario mettere al centro della scuola “l'educazione speciale”: ogni bambino deve esser sostenuto e aiutato affinché possa raggiungere il massimo.
Per sostenere questo modello, la scuola finlandese utilizza in modo diffuso metodologie didattiche inclusive basate sul lavoro di gruppo e la cooperazione e cerca di sfruttare al meglio le potenzialità che le nuove tecnologie offrono per sostenere al meglio tutti i bambini in difficoltà.
Al centro di questo progetto di scuola ci sono gli insegnanti, che sono selezionati con molta attenzione all'inizio della loro carriera, ma poi vengono sostenuti e valorizzati e a cui viene affidata la piena responsabilità nella costruzione e valutazione del percorso di apprendimento degli alunni.
Non esistono forme di valutazione esterna, standardizzata nei primi anni della scuola primaria (fatta eccezione per le prove Pisa e le altre rilevazioni internazionali) ma la differenza di risultati tra una scuola e l'altra è in tutte le zone del paese la più bassa al mondo.
La scuola finlandese è stata capace di riformare l'intero sistema d'istruzione e di renderlo uno dei migliori al mondo perché è riuscita partendo da un progetto educativo e pedagogico ben chiaro (sintetizzabile nello slogan “la scuola deve essere equa per essere efficiente”), a sostenerlo e a promuoverlo con coerenza da un punto di vista politico, economico e organizzativo.
L'organizzazione dell'intero sistema scolastico è pensata in funzione delle esigenze pedagogiche ed educative individuate e sostenuta dalla necessaria copertura economica.
La maggior parte delle teorie e pratiche didattiche della scuola finlandesi sono importate dalla parte migliore delle tradizioni pedagogiche europee ed americane ma, in Finlandia, sono davvero applicate in modo diffuso su tutto il territorio, grazie alla dedizione di un corpo insegnante preparato e motivato che non trova ostacoli economici, organizzativi o burocratici nella realizzazione degli obiettivi educativi e pedagogici che ha pianificato.
Collegamenti:
[1] http://associazionetommaseo.it/sites/default/files/NVM487_dic2016.pdf