Si rende disponibile in allegato il numero 484 del notiziario associativo uscito nel mese di dicembre 2015.
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di Gianluigi Camera
Poco dopo l'inizio dell'anno scolastico, sui giornali è sbocciata all'improvviso una disputa sull'uso del dettato in classe. E ciò dopo che in Francia, dove vive un centralismo molto più accentuato che nell'Italia delle autonomie scolastiche, è stata impartita la disposizione dell'esercizio quotidiano della “dictée” scaturita dalla constatazione che un francese su due non padroneggia con sicurezza la lingua di Cartesio.
Misura inimmaginabile nella nostra scuola dove, dopo il rinnovamento degli anni ’60 e ’70, in nome della pur auspicabile creatività espressiva della lingua, si sono dimenticate tutte quelle prassi didattiche che potessero apparire - ed effettivamente lo erano - soffocanti della libera originalità espressiva dell'alunno.
Non si tratta - ritengo - di schierarci con manichei apriorismi per il dettato o per la libertà espressiva considerando inconciliabili le due posizioni. Si tratta invece di chiarire quale possa essere il rapporto tra i due aspetti dell'insegnamento/apprendimento linguistico, tra la comunicazione e le sue regole costitutive.
Nessuno mette in dubbio che la lingua sia essenzialmente comunicazione nutrita di originalità. Ma altrettanto ovvia è la considerazione che la comunicazione linguistica, nei suoi vari registri, debba obbedire a precisi codici socialmente accettati. La lingua come prodotto umano è sottoposta a canoni storicamente determinati e condivisi, mutevoli nel tempo (asse diacronico), ma validi e cogenti per comune convenzione in ciascun momento storico (asse sincronico).
Tornando alla complessità della competenza linguistica non è possibile negare che i due aspetti - quello formale delle regole e quello sostanziale dell'espressività - siano egualmente necessari. Una lingua senza regole è anarchica, ma se fatta di sole regole è prigioniera di se stessa.
Spetta ai docenti far capire agli alunni l'inscindibile nesso tra questi due momenti.
Spetta ai docenti utilizzare modelli ed espedienti didattici tali da rendere motivanti ed appetibili gli aspetti morfologici del discorso. Spetta ai docenti, innovando le vecchie prassi, garantire che la comunicazione linguistica tra emittente e destinatario sia percepita nella sua integrità. Impegno grande e difficile come tutta l'opera educativa, ma indispensabile. Recentemente una scuola primaria di Torino ha tappezzato le scale di accesso alle aule di tabelline pitagoriche per facilitarne la memorizzazione da parte degli alunni. È possibile pensare a qualcosa di simile anche per le regole ortografiche?
di Fabrizio Ferrari
Siamo oramai a tre mesi dall'inizio dell'anno scolastico e si cominciano a intravedere i primi risvolti della legge 107, della cosiddetta “Buona Scuola”.
Molte sono state le difficoltà di avvio dell'anno scolastico per il difficile reperimento degli insegnanti a tempo indeterminato. Tanti i dietro-front dell'USR, tante le nomine riviste e corrette, tante le tensioni.
Inutile volgere lo sguardo alle classi e agli studenti: sono sempre lì, spettatori di una messa in scena che di anno in anno è sempre più grottesca, se non fosse drammatica.
Ma tant'è e non ci si può fare nulla: la macchina governativa quest'anno è lanciata più che mai, convinta che il cambiamento della scuola non possa più aspettare, e niente e nessuno la può fermare.
Nel mese di dicembre anche l'organico aggiuntivo è arrivato a destinazione, almeno sulla carta, e sarebbe interessante vedere se davvero le scuole sono nelle condizioni di sfruttare appieno le professionalità richieste agli insegnanti di fresca nomina, piuttosto che invece essere costrette a utilizzarli per supplenze, anche se a malincuore, e sempre con studenti e studentesse spettatori forse, a questo punto, anche un po' frastornati e confusi.
Ancora più interessante sarebbe andare a vedere come i Collegi dei Docenti si sono mossi nei confronti dei membri dei Comitati di Valutazione. Come previsto dalla normativa, ogni Collegio deve provvedere alla nomina di due insegnanti da fare entrare, su un totale di sette componenti, all'interno del Comitato, insieme al terzo insegnante scelto dal Consiglio d'Istituto.
Il Comitato, una volta operativo, dovrà poi provvedere a definire i criteri su cui il dirigente baserà la scelta degli insegnanti migliori dell'istituto scolastico.
Chi è preoccupato dei superpoteri della dirigenza valuta inutile, se non controproducente, la nomina degli insegnanti: a cosa può portare la loro individuazione se tanto sono e saranno sempre in minoranza?
Altri sono preoccupati che gli insegnanti non vengano eletti: è importante esserci e fare sentire la propria voce.
E ancora altri ipotizzano vincoli di mandato, come ultima possibilità per fare valere la propria volontà politica.
La verità è che non si sa più come innovare la scuola per farla funzionare senza investimenti. Si sta provando di tutto, anche creando contrapposizioni interne. La speranza forse è quella che, nel disorientamento, resista una solida base di buona volontà e adattamento a rendere operativa una scuola povera di risorse, con edifici fatiscenti, senza stipendi adeguati agli insegnanti e senza leadership educative, pedagogiche e didattiche.
Studenti e studentesse stanno a guardare, a volte alzano un po' la voce cercando di reclamare una scuola di qualità, ma senza grossa convinzione e, comunque, con nessun risultato.
di Lia Ferrero
Una nuova èra
Intorno a 10.000 anni fa ebbe termine l’ultima glaciazione e il clima diventò a poco a poco più mite. Il paesaggio si modificò nel tempo: i ghiacci lasciarono il posto alle foreste; le zone nordiche si coprirono di tundre e di steppe e nelle terre affacciate sul Mediterraneo il clima mite favorì la prima coltivazione dei campi e il progressivo addomesticamento degli animali. La caccia continuò ad essere un importante mezzo di approvvigionamento del cibo, ma si rivolse principalmente ad animali di piccola taglia (cinghiali, lepri, roditori), in quanto le renne, gli orsi, i mammuth erano trasmigrati a nord.
L’età che prendiamo in considerazione copre all’incirca un periodo che va dai 10.000 ai 3.500 anni dalla nostra èra. È denominata “Età della Pietra Nuova” o “Neolitico”ed è caratterizzata da rapidi e repentini cambiamenti. Quella che fu definita dai paleontologi “Rivoluzione Neolitica” consistette innanzitutto in nuovi procedimenti della lavorazione della pietra: la scheggiatura, praticata durante tutto il Paleolitico, fu sostituita a poco a poco dalla levigatura ottenuta con sabbia e acqua: tecnica questa che rese il taglio più regolare e tale da consentire un minore spreco di materiale e la produzione di oggetti, in particolare strumenti lavorativi, più piccoli, più diversificati tra loro, più adatti allo scopo. Furono così prodotti coltelli, lame, asce, punte di freccia, punteruoli, raschiatoi, falcetti, martelli, mazze, giavellotti, archi, zappe, macine e così via; inoltre grandi recipienti di argilla impastata con acqua ed essiccata al sole servirono a contenere le derrate alimentari.
L’addomesticamento di determinati animali diede origine alla pastorizia e favorì la coltivazione dei terreni. Verosimilmente in un primo tempo le comunità praticarono nel contempo agricoltura e pastorizia; successivamente venne operata a poco a poco una distinzione e una separazione delle due attività fino a determinare interessi contrapposti, al punto che tradizionalmente i pastori che sfruttavano i terreni vennero considerati avversari dei coltivatori degli stessi.
La pratica dell’agricoltura fu peraltro un processo di lunga durata: possiamo supporre che i semi dei cereali spontanei - che da tempo hanno rappresentato una parte del nutrimento dell’uomo del Paleolitico - siano stati raccolti, selezionati, osservati nella loro crescita, riprodotti, messi a dimora in terreni resi fertili anche dall’accumulo di ceneri usate per la distruzione di erbe infestanti e non commestibili. Fu così che le primitive pratiche agricole, favorite dal clima mite del bacino del Mediterraneo, ebbero inizio in una zona denominata “Mezzaluna Fertile”, comprendente l’Anatolia (attuale Turchia) Meridionale, le valli del Tigri e dell’Eufrate, l'area collinare compresa tra Israele, Siria, Libano, Giordania. Lo attesta il rinvenimento in quelle zone di granai a pozzo, di zappe, di falcetti, di macine in pietra e in particolare, nella terra che sarà in seguito colonizzata dai Sumeri, di canali di irrigazione. Le prime specie animali allevate furono gli equini, i bovini, i caprini, gli ovini, da cui le comunità ricavavano, oltre a carne, latte e pelli, anche le ossa per farne utensili. Dei bovini in particolare si sfruttò la forza per il trasporto dei prodotti e, in un’età forse posteriore, per il traino dei primi aratri in legno. Il concime animale servì a fertilizzare i terreni, spesso colpiti dalla siccità.
Allevamento e agricoltura produssero un aumento della popolazione, ridussero le carestie, abbassarono significativamente il tasso di mortalità.
Furono questi gli eventi epocali che trasformarono l’uomo da predatore e da raccoglitore nomade a produttore del cibo necessario alla sua sopravvivenza, rendendolo seminomade o addirittura stanziale.
Per dare al bambino un’immagine della vita pastorale nel Neolitico potrà essere utile impostare un ragionamento guidato ricorrendo alla pittura rupestre che segue, rinvenuta nel Sahara Algerino.
Avete già imparato che cos’è una pittura rupestre: sapreste spiegarlo con parole vostre?
Dove si trova il Sahara dell’Algeria? Cercatelo sulla carta
Com'è oggi il suo clima?
E la sua vegetazione?
Esaminate attentamente la pittura: si tratta di una mandria di animali diversi: quali?
Vedete anche delle figure umane?
Che compito svolgono?
L’incisione su roccia è stata praticata circa 8.000 anni fa: oggi la si potrebbe ancora praticare?
Se no, perché?
La zona era allora verdeggiante, ora è...
Il villaggio stabile
Poche settimane dedicate alla mietitura dei cereali consentivano scorte per un intero anno. Era dunque ancora necessario spostarsi? Nacque di qui l’esigenza di costruire agglomerati di capanne in sostituzione delle tende che le popolazioni nomadi smontavano e trasportavano in continuazione per inseguire gli animali selvatici. I primi villaggi avevano di norma una pianta circolare o ellittica ed erano formati da capanne di legno, frasche e ossa di animali, mescolate con fango e argilla e dotate di un focolare. Al centro del villaggio sorgeva spesso una capanna più grande e confortevole, destinata probabilmente ad ospitare la famiglia di un personaggio eminente che fungeva da capo - villaggio. Esistevano comunque, all’interno di alcuni villaggi, strutture abitative aventi una forma allungata e contenenti anche tre o quattro focolari, a dimostrazione del fatto che l’idea di “condominio” era già nata… In alcuni casi furono rinvenuti dagli archeologi resti di fortificazioni, segno dell’esigenza di difendere il villaggio da incursioni nemiche.
Un villaggio tipico delle terre di Oriente incominciò a svilupparsi a partire da circa 8.500 anni fa: si chiamava Çatal Hüyük e sorgeva nella parte meridionale della Penisola Anatolica.
Le sue case avevano forma quadrata o rettangolare ed erano addossate le une alle altre senza spazi in mezzo: erano del tutto assenti strade e vicoli, tanto che, per spostarsi, gli abitanti erano costretti a camminare sui tetti, che avevano spesso altezze diverse.
:: Come facevano gli abitanti a passare da un tetto all’altro? Di quali mezzi potevano servirsi?
-Di corde
-Di scale a pioli
-.........................
Non lontano dal villaggio sorgeva un vulcano che di tanto in tanto eruttava una materia fluida e incandescente, la lava. Quando questa si rassodava, formava uno strato di roccia dura e resistente, simile al vetro, che si chiamava ossidiana.
:: Dall’ossidiana si ricavavano lame taglienti che servivano per fabbricare armi e utensili vari come
-Punte di freccia
-Coltelli
-Falcetti per mietere
-...Discutendo in classe, continuate voi, pensando a quelli che potevano essere gli utensili e gli strumenti da lavoro del tempo.
:: L’ossidiana era un materiale talmente utile, che i mercanti di Çatal Hüyük la smerciavano in diversi paesi dell’Oriente, scambiandola con prodotti utili al villaggio. Tra questi il grano, la lana di pecora, le pietre da costruzione…
-Come si chiama questo tipo di scambio?
-Nell’èra neolitica era l’unico possibile, perché non era ancora stata inventata la…
-Affinché lo scambio fosse conveniente occorreva che le merci che venivano scambiate avessero all’incirca
-Lo stesso peso
-Lo stesso valore
I mercanti tornavano a Çatal Hüyük e rifornivano gli artigiani del materiale che occorreva per il loro lavoro. I laboratori del villaggio erano rinomati in tutte le terre dell’Oriente per l’accuratezza dei prodotti lavorati.
:: Unite con frecce i materiali elencati ai nomi degli artigiani che li lavoravano:
legno tessitori
lana muratori
vimini ceramisti e vasai
argilla falegnami
pietre da costruzione cestai
:: Prendendo ad esempio Çatal Hüyük avete imparato che esistevano villaggi di artigiani specializzati nella fabbricazione di prodotti utili e di mercanti che li smerciavano. Finora avevate solo sentito parlare di villaggi di
1. …………………………………………….
2. e di ………………………………………..
:: Secondo voi, erano più progrediti i villaggi di contadini e di pastori o quelli di artigiani e di commercianti?
:: Perché?
:: In quali dei due tipi di villaggio le case dovevano comprendere una parte da adibire a laboratorio?
:: In quali dovevano esserci in ogni laboratorio maestri di bottega, lavoranti, apprendisti?
I precedenti quesiti dovrebbero poter introdurre, attraverso la discussione guidata, al concetto di nuova organizzazione della società, caratterizzata da una prima divisione dei compiti e dal realizzarsi delle più elementari forme di gerarchizzazione.
Dall’Oriente la concezione del villaggio si diffuse a poco a poco in Europa e assunse struttura e fisionomia diverse a seconda del luogo di costruzione e dei costumi degli abitanti.
Qui i villaggi furono edificati spesso nella parte periferica dei laghi o sulle acque stagnanti di paludi e di acquitrini. In considerazione del fatto che le costruzioni erano di materiale deperibile, in particolar modo di legno, oggi non ne avremmo più traccia se non emergessero dall'acqua i pali che sostenevano le piattaforme in legno. Abbiamo così notizia di grandi complessi di palafitte che emergono dai laghi e dalle paludi di paesi transalpini come la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Germania, i Paesi Nordici, mentre in Italia vari laghi alpini ne recano traccia. Tra questi il Lago di Ledro, nel Basso Trentino, ad ovest del Lago di Garda. Qui fu riportato alla luce un imponente complesso neolitico quando, nel 1929, il livello delle acque si abbassò per consentire la costruzione di una centrale idroelettrica. Si trattava di una vasta piattaforma in legno che poggiava su circa 10.000 pali infissi in profondità nella melma del fondo e sulla quale sorgevano i resti delle capanne.
Per quanto riguarda i villaggi su terraferma, ne danno testimonianza in particolare numerose rappresentazioni planimetriche incise sulle rocce emergenti in Val Camonica, a monte del Lago di Ledro. Le mappe riproducono, in aree più o meno estese, concentrazioni di abitazioni unite da sentieri e talora separate da campi coltivati. Il significato di tali rappresentazioni, caratteristiche del tardo neolitico o di ère posteriori, ha dato origine a varie interpretazioni: potevano essere mappe catastali o punti di riferimento significativi o, ancora, potevano avere finalità sacrali.
Il culto delle grandi pietre
Gli uomini del Neolitico erano sovente a contatto con fenomeni che li affascinavano e spesso li atterrivano in quanto apparivano loro come opera di una potenza superiore. In particolar modo coloro che abitavano in zone montane assistevano al precipitare a valle di grandi massi sotto la spinta dei ghiacciai in fase di scioglimento per l’aumento della temperatura. Solo una forza sovrumana, essi pensavano, poteva sbriciolare interi versanti e smuovere massi che decine di uomini non sarebbero stati in grado nemmeno di spostare. Ancora oggi richiede una spiegazione la visione di possenti massi erratici lungo i fianchi delle montagne o nei fondovalle.
La pietra veniva dunque considerata sacra e di origine divina.
Di pietra venivano fatti i dolmen, ossia le dimore dei morti importanti. I dolmen venivano edificati con due grandi pietre verticali e una orizzontale che le ricopriva. In realtà quelli che compaiono oggi altro non sono che lo scheletro di un tumulo, una collinetta di terra che ricopriva le pietre e che aveva la funzione di proteggere il defunto, impedendo a chiunque di avvicinarvisi.
La roccia delle fate. I dolmen sono abbastanza diffusi, soprattutto in zone montane, dove esisteva la possibilità di reperire e di trasportare le pietre necessarie. Ma un fenomeno abbastanza inconsueto si manifesta in una zona della Bretagna, la penisola a nord - ovest della Francia, non lontano dalla città di Rennes. Si tratta di un complesso megalitico che risale presumibilmente a circa 5.000 anni fa, una sorta di galleria di pietre verticali sovrastate da pietre orizzontali. La sua lunghezza è di circa 14 metri e le pietre sono in numero di 42, quasi tutte del peso di oltre 40 tonnellate. I paleontologi hanno rinvenuto nel terreno sottostante varie sepolture intere, oltre a un numero imprecisato di ossa.
Con i bambini è possibile avviare in proposito una riflessione guidata, ricorrendo all’immagine che segue.
Le pietre verticali come quelle orizzontali risultano essere state sbozzate da strumenti non metallici.
:: Gli strumenti usati potevano dunque essere
-Di legno
-Di pietra
:: Questo vi dice che le enormi pietre vennero lavorate
-Prima dell’uso dei metalli
-Dopo l’uso dei metalli
:: Il complesso sorge in una pianura erbosa dove non si trovano massi rocciosi. Questi sarebbero stati dunque trasportati da una distanza di circa 4 kilometri. Con quali mezzi?
-A braccia
-Con carri a ruote
-Con slitte di legno che scorrevano su rulli, altrettanto di legno.
:: Gli uomini addetti al lavoro dovevano comunque essere
-In pochi
-In molti
:: Il tempo impiegato poteva consistere in
-Giorni
-Mesi
-Anni
:: La fatica compiuta per questa immane opera vi dice
-Che quelle comunità non avevano altro da fare
-Che ponevano grande cura nel seppellire i morti
:: Perché, a vostro parere, il complesso è stato denominato “Roccia delle fate”?
-Perché le fate - o, se non loro, i maghi e i giganti - a quei tempi erano solite aiutare effettivamente gli uomini
-Perché l’opera era immane, al punto che solo una forza superiore avrebbe potuto realizzarla
Un’altra tipologia di “monumenti” del neolitico sono i menhir, pietre conficcate verticalmente nel terreno e sopravvissute allo scorrere del tempo. La loro altezza varia di molto anche in uno stesso luogo: da pochi decimetri a circa venti metri. I menhir sono tuttora diffusi in buona parte delle terre d’Europa, ma sono particolarmente concentrati in Bretagna. Alcuni di essi si trovano in luoghi pianeggianti, altri su alture o su pendii. Lungo il corso dei millenni parecchi menhir sono caduti, altri si sono frantumati, altri ancora sono stati distrutti.
Il luogo più caratteristico per la grande concentrazione di queste pietre si trova a Carnac, nella parte sud della Bretagna, non lontano dal mare. Qui possiamo vedere più di 4.000 pietre allineate e disposte anche in dodici file, come i personaggi di un'interminabile processione. Il disegno ve ne rappresenta solo uno scorcio.
Ancora oggi gli studiosi si interrogano sul significato di questo allineamento e, al momento, non sanno dare risposte certe.
-Alcuni di loro pensano che servissero a delimitare dei territori
-Altri ritengono che fossero come lapidi di un immenso cimitero
-Altri ancora suppongono che servissero a individuare la posizione degli astri e che funzionassero quindi come orologi o calendari giganteschi.
-Quale delle tre ipotesi scegliereste?
-Perché? Provate a discuterne con l’insegnante e i compagni.
(Continua)
di Sheila Bombardi
Il comma 1 dichiara la finalità primaria della legge di dare piena attuazione all’autonomia scolastica; secondo il disegno complessivo desumibile dalla legge, le tre leve sarebbero:
1. una maggiore dotazione di risorse umane (l’organico dell’autonomia, “funzionale alle esigenze didattiche, organizzative e progettuali delle istituzioni scolastiche”);
2. una prospettiva più estesa nella pianificazione e programmazione (la triennalità);
3. una più definita e più consistente dotazione di risorse economiche.
A completamento di tali condizioni operative (basilari per qualsiasi organizzazione), la legge prefigura – in modo trasversale e diffuso – un consistente investimento in formazione continua, riconosciuta quale fattore fondamentale per l’efficacia del sistema di istruzione e per il suo miglioramento. In sintesi può dirsi: l’autonomia (effettiva) è il presupposto, l’incremento di formazione è una variabile determinante per il miglioramento degli esiti scolastici.
La formazione rappresenta una delle molteplici dimensioni dello sviluppo e della valorizzazione della professione, tuttavia può essere considerata come la dimensione basilare: è quella che riguarda e interessa tutti i docenti senza distinzione e che costituisce l’aspetto peculiare e qualificante dell’insegnamento, e sulla quale si alimentano e si innestano eventualmente le altre dimensioni professionali (ad esempio, l’impegno e il coinvolgimento in attività di innovazione e di ricerca, l’attività ulteriore e complementare all’insegnamento, la responsabilità di coordinamento di progetto e di gruppi, ecc.).
L’elemento cardine nella Legge è nel comma 124:
“la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente, strutturale”.
Questo passaggio supera – senza lasciare aperti dubbi interpretativi – la situazione di incertezza della formula del “diritto-dovere” all’aggiornamento (art. 282 del TU). La formazione, punto di partenza e di compiutezza di ogni professione, è qui posta quale elemento fondamentale, parte integrante della qualità della prestazione lavorativa.
Rispetto ai docenti in ruolo1, la formazione può essere vista – per semplificazione – in un’articolazione su 3 livelli, comunque intrecciati e complementari, che sarebbero volti a coprire tre sfere di fabbisogni conoscitivi:
1. a livello individuale;
2. a livello di istituto (autonomamente o in rete);
3. a livello nazionale.
Carta elettronica per l'aggiornamento e l’auto-formazione del docente
La somma a disposizione di ogni docente per anno scolastico è di 500 €, ha come vincolo di destinazione la formazione (inerente, a maglie larghe, al proprio profilo professionale) e potrà essere liberamente spesa (cioè senza alcun meccanismo di autorizzazione preventiva) per servizi e per beni, secondo l’elenco al comma 121. A livello individuale emerge il riconoscimento – per la prima volta – della specificità di ogni singolo docente e della capacità del docente di pensare e realizzare un proprio progetto formativo individualizzato. Il presupposto implicito dell’offrire a tutti un’opportunità formativa è che ogni docente abbia consapevolezza del proprio percorso professionale e contezza dei saperi che gli serve rafforzare.
Il docente potrà considerare le proprie necessità soggettive di conoscenza sia rispetto alle discipline insegnate, sia rispetto alle metodologie didattiche adottate o alle impostazioni culturali e pedagogiche, anche in riferimento a cosa è già previsto (o non previsto) nel programma formativo dell’istituto che in molti casi non copre tutte le discipline e le necessità di tutti i docenti.
È da rilevare che si introduce un’idea della formazione continua (nel tempo extra-lavorativo) che supera la rigidità del corso di formazione e aggiornamento in modalità tradizionali e scelto da altri decisori, aprendo la strada a molte opzioni di apprendimento non formale (ad es. teatro, lettura…) in una logica di lifewide learning e di implicita coerenza con il principio della libertà di insegnamento. Al contempo si riconosce – anche in una logica di sussidiarietà – il valore formativo e culturale dei gruppi professionali e delle associazioni, capaci di aggregare e discutere, nonché capaci di ridurre eventuali rischi di lontananza e separatezza delle opzioni formative “individualiste” dallo stato dell’arte della ricerca e del dibattito nazionale e internazionale.
Diversamente da quanto spesso paventato, la “carta” – che è senza dubbio utilizzabile in modo rigorosamente individuale – non preclude in alcun modo la possibilità di utilizzo anche in modalità collettive, in parte o interamente, in base alle diverse sensibilità individuali e alle opportunità offerte dai diversi contesti.
Infatti, è possibile che un docente:
1. organizzi la propria formazione insieme ai colleghi, anche in modalità tra pari, spendendo quanto crede in un progetto formativo di interesse;
2. spenda per la formazione organizzata dalle associazioni in cui è attivo;
3. decida di destinare una certa parte a un progetto formativo nato nell’istituto, ideato/organizzato con i colleghi, in aggiunta e in coerenza con la formazione decisa dal collegio docenti nell’elaborazione del piano triennale;
4. si iscriva con i colleghi a corsi di soggetti terzi (accreditati al MIUR). E, pur nel rispetto delle scelte individuali e più tradizionali, è nelle opzioni di condivisione delle occasioni di conoscenza che si trova il maggior potenziale di innovazione e di miglioramento per la singola scuola e per il sistema in generale.
Programmazione delle attività formative di istituto
A livello di istituto, il programma di formazione diviene parte integrante del piano triennale (la formazione è anche in tal senso strutturata, nell’agire della scuola e nello svolgimento della professione), sta in coerenza con gli obiettivi di miglioramento identificati nell’autovalutazione e, con la deliberazione del PTOF, la formazione programmata diviene obbligatoria per i destinatari identificati (tutto il personale).
Il generale richiamo nel c. 3 allo sviluppo del metodo cooperativo, nel rispetto della libertà di insegnamento, e il criterio e) c. 93 per la valutazione del DS, parrebbero riferibili anche alla formazione in servizio; infatti, anche il programma formativo di istituto – al pari della formazione individuale – può essere pensato e organizzato in modo cooperativo tra più scuole attivando accordi di rete (incentivati anche nel bando per le azioni di miglioramento), attivando gruppi di docenti per la scelta, l’organizzazione e la frequenza.
Le scelte formative deliberate dai collegi andranno dunque considerate con un diverso peso rispetto al passato per almeno tre ragioni:
1. per il loro contributo atteso al miglioramento degli esiti della scuola2;
2. per l’elemento di obbligatorietà alla frequenza una volta approvate;
3. per essere un aspetto, affatto marginale, della politica di un istituto nella valorizzazione delle risorse umane.
Il Piano nazionale di formazione
A fronte di due livelli liberi e auto-organizzati di formazione in servizio, si pone il livello centrale e eterodiretto. Al livello nazionale è attribuito, attraverso il Piano nazionale di formazione triennale, l’intervento pubblico generale vero e proprio, volto a presidiare – in un teorico quadro strategico delle politiche scolastiche nazionali – il perseguimento delle finalità dell’azione formativa, i temi prioritari (quali le emergenze, le innovazioni e i traguardi nazionali), i diritti fondamentali (es. formazione BES), le metodologie innovative e ogni altro tema ritenuto di portata più ampia. Ad esso si affiancano, con specifiche direttrici formative, il piano nazionale Scuola Digitale e la formazione nell’ambito della programmazione PON, nonché la formazione SNV.
di Alessandro Rabbone
Un articolo de “La Stampa” del 28 ottobre 2015 intitolato “Mamma, devo fare i compiti di coding” ha decisamente attirato la mia attenzione, e stimolato qualche ulteriore riflessione.
Non tanto per i contenuti, che danno abbondanti e aggiornate informazioni sul contesto sociale, politico ed economico in cui si sta sviluppando l'iniziativa Coding - Buona Scuola, quanto per il titolo in sé: "Mamma, devo fare i compiti di coding".
In poche parole è riassunto un problema, a mio avviso non di poco conto, che sta investendo la scuola, quella primaria in particolare.
Il problema riguarda la "compatibilità" tra il nuovo oggetto d'insegnamento, che il governo sembra intenzionato ad introdurre nella scuola, forse sull'esempio di altre nazioni europee (l'Inghilterra in primo luogo), e le tradizionali pratiche didattico-organizzative della scuola stessa.
In altre parole, è possibile introdurre l'insegnamento di un nuovo oggetto (il coding appunto), servendosi degli strumenti didattici abituali della scuola? Non solo dei classici compiti a casa, ma anche delle lezioni, delle interrogazioni, dei compiti in classe, delle verifiche bimestrali e via dicendo? Quanto va d'accordo l'idea di imparare a programmare un computer con l'idea di fare il "compito" per la scuola?
Per quella che è la mia esperienza nella scuola primaria, ho sempre trovato assai problematico tale rapporto. Esiste indubbiamente una grande distanza tra un modo di imparare fondato sulla curiosità personale, sulla libera esplorazione, sullo "smanettamento" per prove ed errori ed un modo di insegnare molto strutturato, graduale, guidato in modo intenzionale e costantemente monitorato...
Circa un anno fa, già Augusto Chioccariello in un suo articolo su Education 2.0 concludeva che l'introduzione del pensiero computazionale richiede un profondo cambiamento della didattica: da trasmissiva a laboratoriale.
Se si condivide poi il richiamo di Chioccariello alle idee di S. Papert non si può non essere d'accordo. L'apprendere a programmare concretamente non può fare a meno di dinamiche costruzioniste, operative e "laboratoriali", di tentativi per prove ed errori, del debugging1 (previsto nei programmi inglesi), del remixing (del riutilizzo di pezzi di codice altrui), della collaborazione a più mani, delle richieste e delle offerte d'aiuto. Tutte pratiche che la scuola, nella propria tradizione didattica, ha sempre guardato con diffidenza, quando non osteggiato apertamente (che differenza infatti tra il cheating, lo sbirciare indebito sui lavori altrui, e il remixing?).
Certamente esistono alcune proposte operative che, rispetto ad altre, meglio si adattano all'attuale organizzazione didattica e metodologica della scuola. Le ultime proposte, nate in rete ultimamente in occasione dell'iniziativa internazionale Hour of Code, per esempio.
In questo blog ho tentato più volte di sottolineare le profonde differenze di strategia didattica che ambienti diversi sembrano indurre o implicitamente suggerire. Code.org e Scratch sono stati presi come esempi di metodi diversi, per certi aspetti anche antitetici, al di là delle somiglianze esteriori.
Il primo come proposta di attività graduate per la soluzione di puzzle predefiniti, il secondo come proposta di libero bricolage cognitivo.
D'altra parte, la breve, ma molto intensa esperienza dei CoderDojo, anche in Italia, mette in rilievo che buoni risultati sul piano dell'apprendimento possono essere raggiunti anche in assenza di metodi strutturati, o forse proprio per questo (si veda anche l'articolo citato all'inizio).
L'idea di "palestra" (dojo), come e forse di più dell'idea di laboratorio, propone un approccio libero, aperto ed attivo, quasi fisico, alla programmazione.
Ma non bisogna dimenticare che la scuola, a differenza dei club privati, ha compiti istituzionali da cui non può prescindere.
Anche per quanto riguarda la programmazione la scuola ha infatti il dovere di rivolgersi a tutti, non solo a coloro che per proprio interesse personale decidono di frequentare un Dojo. Ha il dovere soprattutto di garantire a tutti i cittadini la possibilità di raggiungere un livello essenziale di competenze.
Non un compito facile quindi, quello che si prospetta per la scuola, se inoltre si considerano le reali condizioni di contesto. A fronte di ragazze e ragazzi motivati seguiti dai mentor in rapporto di uno a tre o quattro nei CoderDojo, la scuola si trova ad operare anche con ragazzi in difficoltà, con un rapporto numerico tra adulti e ragazzi che raramente supera l'uno a venti.
Tali evidenti difficoltà non dovrebbero tuttavia indurre gli insegnanti a ripiegare su pratiche didattiche e strumenti metodologici più sicuri perché più conosciuti.
La scuola, tra il resto, ha anche bisogno di accettare nuove sfide che mettano in gioco le proprie abitudini e la propria tradizione.
Certamente un buon punto di partenza per affrontare tale sfida è quello di rivedere il concetto di "competenza digitale" (o forse, meglio, di "competenze digitali"?).
Dalle raccomandazioni di Lisbona e dalla definizione delle "competenze chiave" del 2006 sono passati quasi dieci anni, si è iniziato a discutere di "pensiero computazionale" solo negli anni successivi, i programmi inglesi del 2013 introducono una distinzione tra competenza relativa all'uso delle ICT2 e competenza relativa al computing.
Occorre poi considerare se, relativamente a quest'ultima, sia sufficiente inserire nei programmi nazionali un elenco di concetti e di abilità da acquisire, oppure non vada presa in considerazione un'idea di "competenza" in senso più ampio, un'idea che comprenda, oltre che conoscenze ed abilità, anche abitudini, modi di operare, strategie, atteggiamenti e modi di pensare.
di Lura Siviero
Cosa è la Global Education?
Alla luce dei tragici fatti di Parigi, scrivere di educazione alla cittadinanza globale diventa perentorio.
La definizione di Global Education prende forma nel 2002 con il Congresso di Maastricht che considera l’istruzione alla cittadinanza globale un obiettivo necessario per il Millennio. Vengono stabilite le cinque educazioni che insieme costituiscono l’educazione alla cittadinanza globale o Global Education: l’Educazione alla Solidarietà, ai Diritti Umani, allo Sviluppo sostenibile, alla Pace e all’Intercultura.
Nel 2005 la Conferenza di Bruxelles sulla Global Education si conclude con la convinzione che, per promuovere la crescita dei paesi, sia necessario investire in educazione alla cittadinanza globale, motore per la costruzione di una società civile. Questo deve essere attuato non soltanto attraverso l’istruzione, incoraggiando e sostenendo le buone pratiche in educazione, ma attraverso politiche incrociate.
Nel 2006, la Conferenza di Helsinki ha nuovamente posto l’educazione alla cittadinanza al centro dell’agenda per lo sviluppo globale. Sono emerse una serie di priorità tra cui la qualità e l’efficacia dell’educazione alla cittadinanza globale.
L’educazione alla solidarietà come competenza sociale e civica, trasversale
L’educazione alla solidarietà si incardina nelle competenze sociali e civiche richiamate dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo 2012 (Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006) e riprese nel RAV tra gli esiti, competenze di cittadinanza.
Mentre le altre “educazioni”, allo sviluppo sostenibile, alla pace, ai diritti umani e all’educazione interculturale hanno una storia più lunga e sono già entrate a regime negli ordinamenti scolastici di molti stati europei, in Italia, e in alcuni altri paesi, l’educazione alla solidarietà è un tema ancora poco frequentato.
All’interno delle educazioni previste dall’UE, la solidarietà occupa un posto paritetico, ma in realtà si tratta di un’educazione trasversale alle altre. Si può, infatti, parlare di sviluppo sostenibile solo se i bambini hanno appreso l’importanza di uno sguardo globale sul mondo, che comporta la messa in gioco di diritti e doveri per tutti. Senza l’abitudine a trattare la solidarietà come atteggiamento necessario e fondante della nostra società e senza affermare che è la scuola il luogo in cui va insegnata, monitorata, valutata, non sarà possibile trasmettere altri valori come la sostenibilità, la pace, i diritti umani. I ragazzi saranno in grado di determinare la propria impronta ecologica o dividere i rifiuti, ma non di replicare in circostanze diverse l’atteggiamento sostenibile perché non intravedranno i vantaggi a favore dell’intera società, globale.
La scuola deve insegnare i valori morali?
Diventa fondamentale comprendere che è nelle sacche dell’ignoranza e dell’esclusione sociale che si annidano e trovano spazi i movimenti estremisti che vediamo agire e reclutare i giovani. È necessario partire dall’educazione ai bambini e alle bambine a ciò che significa essere solidali. La solidarietà serve a creare la compattezza del gruppo e a favorire l’inclusione, il supporto, proprio alle fasce che sono più deboli, dal punto di vista intellettivo e sociale. Permettere l’inclusione, sperimentare e promuovere la solidarietà va nella direzione della prevenzione dei fenomeni di disagio a cui ogni giorno assistiamo.
Occorre chiedersi se la scuola debba essere lo spazio in cui insegnare i valori morali oppure debba restare neutrale rispetto ai temi etici. Una questione che ha attraversato la storia dell’educazione: da Durkheim a Piaget a Kohlberg con le fasi dello sviluppo morale. Anche Ricoeur e Pellerey parlano dell’importanza di passare valori morali in educazione e dell’impossibilità per i docenti di restare neutrali.
Bisogna prendere atto che la moralità, dimensione fondamentale della persona umana, non è insita nella persona, ma si sviluppa attraverso un processo educativo in famiglia, a scuola e nella società. La scuola ha un ruolo fondamentale in questo processo. Come testimonia l’attenzione ai progetti in tal senso promossi dall’Amministrazione scolastica. Per quanto attiene la formazione morale a scuola, tema molto controverso, il testo normativo a cui fare riferimento è costituito dai Programmi del 1985, cioè dei “valori condivisibili”, secondo gli orientamenti contenuti nella Carta costituzionale (D.P.R. 12 febbraio 1985, n 104, Programmi didattici per la scuola primaria, “La scuola elementare, pertanto, nell'ambito di una educazione finalizzata anche alla presa di coscienza del valore del corpo inteso come espressione della personalità (…) Nel promuovere tali attività (…) tiene presenti gli obiettivi formativi da perseguire in rapporto a tutte le dimensioni della personalità: morfologico-funzionale; intellettivo-cognitiva; affettivo-morale; sociale”).
Percorsi di educazione alla solidarietà internazionale nella primaria
Il cambiamento degli atteggiamenti di solidarietà, empatia, altruismo è un percorso lungo nel tempo. Per questo motivo è necessario iniziare dalla scuola primaria e misurare il cambiamento tra l’inizio e la fine del percorso. Risulta di particolare rilievo definire un intervento prolungato e sostanziale, costante nel tempo e qualitativamente significativo. Permettere la sedimentazione e la ripresa dei concetti e metterli in pratica. Infine monitorare il cambiamento degli atteggiamenti. La valutazione occupa un posto fondamentale per rispondere anche ai parametri di qualità richiesti dall’UE. Come in ogni processo valutativo, si rende necessario definire anzitutto cosa si vuole valutare e identificare lo strumento adeguato. Se si intende valutare le conoscenze si possono utilizzare prove strutturate, ma se si rende necessario valutare il cambiamento degli atteggiamenti rispetto ai valori si potranno usare delle scale di autovalutazione o dei dilemmi morali, se si decide invece di misurare l’empatia si potranno utilizzare materiali visivi e interrogare i bambini su come si sentono di fronte a quelle immagini.
L’educazione sociale rappresenta un dovere e una sfida per la scuola globale se si vuole che sia garantita la convivenza civile, democratica, umana.
di Valeria Amerano
Questa volta non scriverò un racconto, ma alcune brevi considerazioni intorno a un documento rinvenuto nella casa di famiglia durante il penosissimo lavoro di sgombero che, dalla morte di mia madre, mi impegna e mi angoscia senza spingermi a seguire il consiglio sbrigativo della maggioranza degli amici: “Metti tutto nei sacchi e noi ti aiutiamo a portare via”. Disgraziatamente, una persona che scrive tende a conservare, o almeno ad esaminare carte e oggetti prima di liberarsene. Ed ecco, ripiegato in un vecchio portafoglio appartenuto a mio padre, balzarmi tra le mani un foglietto a righe ingiallito con la sua bella grafia in inchiostro nero. Il testo riporta queste precise parole:
Io sottoscritto Amerano Giuseppe di Giacomo, dichiaro di portare quotidianamente nel cofanetto della Lambretta, oltre ai ferri comuni assegnati dalla Casa costruttrice, i seguenti ferri di mia proprietà:
n. 1 paio di pinze universali
n. 1 chiave inglese
n. 1 chiave fissa
n. 1 cacciavite
Torino, 29-8-1955
Sulla sua firma un timbro rotondo: Materiale entrato e non controllato - Fiat Auto.
A parte la sconfitta che mio padre rappresentò a se stesso tutta la vita per essere stato assunto nel 1936 “provvisoriamente” in officina, in attesa di vedersi collocato in ufficio con mansioni consone alle sue scuole commerciali e al diploma conseguito di aiuto contabile, e dove invece rimase oltre quarant’anni; mi colpisce il clima inquisitorio che regnava a quel tempo nella fabbrica. Se da un lato capisco perché mio padre non abbia mai fatto strada aggirando tornelli - non era tipo da arruffianarsi i capi per riferire loro in separata sede peculiarità etiche e politiche dei compagni di lavoro; aveva inoltre rinunciato all’assegnazione di una casa Fiat per non ritrovarsi intorno l’ambiente che mal sopportava otto ore al giorno; dall'altro lato mi viene spontaneo pensare alla situazione attuale di corruzione, appalti truccati, iniziative come idrovore di stanziamenti, denaro pubblico affidato a operatori della cultura, della sanità, ad amministratori politici che trasformano in greppia, in serbatoio personale fondi destinati al servizio dei cittadini.
Mi fa tenerezza l’elenco degli strumenti che un operaio doveva dichiarare di possedere al suo ingresso in fabbrica. Sarebbe impensabile oggi chiedere un resoconto altrettanto minuzioso dei milioni di euro gestiti e spesi da personaggi al di sopra di ogni sospetto, finché non si scoprano anch’essi “umani, troppo umani”…?
Collegamenti:
[1] http://associazionetommaseo.it/sites/default/files/NVM484_dic2015.pdf